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L'OMBRA DI CARAVAGGIO
Drammatico
di Michele Placido
con Riccardo Scamarcio, Louis Garrel, Isabelle Huppert, Micaela Ramazzotti
120 minuti - Italia 2022

Tre secoli prima della sua invenzione, i quadri di Michelangelo Merisi da Caravaggio erano già cinema. Avevano dentro tutto quello che il cinema che amiamo ci regala: una storia forte, il movimento, le luci e le ombre, grandi protagonisti in primo piano e grandi comparse. E, ovviamente, grandi scenografie. È allora naturale che il cinema si occupi di Caravaggio, come vi raccontiamo nella recensione de L'ombra di Caravaggio, il film di Michele Placido con Riccardo Scamarcio, presentato alla Festa del Cinema di Roma e al cinema il 3 novembre. L'idea di Michele Placido è quella di raccontare il grande pittore con la struttura dell'investigazione, un po' quella di Quarto Potere, creando un personaggio, l'Ombra, che effettua un'indagine per conto del Papa. È un'ottima idea e il film è riuscito. Non è un'opera d'arte, ma un film sulle opere d'arte, e in questo senso è funzionale e propedeutico: non fa innamorare del film stesso, ma dell'arte immensa di Caravaggio. E ci sembra un'ottima cosa. Nella Roma del Seicento, si muove scaltro e inquietante l'Ombra (Louis Garrel), investigatore incaricato da Papa Paolo V di ricostruire la vita e le opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio (Riccardo Scamarcio) e verificare la sua ortodossia, in vista di una grazia del Papa. Caravaggio infatti ha lasciato Roma dopo essere stato accusato dell'omicidio di Ranuccio Tomassoni. La sua arte è riconosciuta da tutti, la sua vita è considerata peccaminosa, ma tollerata. Quello che non gli viene perdonato è appunto il suo non volersi conformare ai canoni dell'arte sacra, decisi dal Concilio di Trento, ma il volerla sconvolgere completamente in nome della verità. Caravaggio aveva ben chiaro quella che sarebbe dovuta essere la sua arte. Voleva dipingere il vero, il dolore dell'umanità, i miserabili. Così, mentre l'arte sacra dipingeva i cieli, gli angeli, i colori chiari, un mondo astratto e lontano dalla realtà, Caravaggio viveva nei bassifondi, nelle strade, tra il popolo, respirava quell'aria e se ne impregnava. Viveva a fianco delle prostitute, dei mendicanti, dei derelitti, e li raffigurava nei panni di Madonne, santi e creature mitiche. In questo modo elevava la povera gente a opera d'arte, li riscattava, idealmente li salvava. Mentre una Chiesa lontanissima da tutto e tutti non se ne occupava minimamente, con l'eccezione di preti illuminati come San Filippo Neri. Michele Placido, allora, con L'ombra di Caravaggio, ci fa viaggiare davvero nella Roma del Seicento. Quella Roma che è giunta a noi, ed è ancora tra noi, con le chiese, con i dipinti e le opere d'arte, ormai puri, puliti, fissati nel tempo. Ma quella Roma, fuori dalle chiese e dai palazzi, pulsava di vita. E così viaggiamo nel mondo in cui era immerso Caravaggio: le osterie, le botteghe d'arte, i vicoli e le piazze. Un sottobosco, un mondo lascivo, peccaminoso, allo stesso tempio gioioso e doloroso. È qui che Caravaggio incontra delle prostitute, come Annuccia, che diventerà la sua Maria Maddalena dai capelli rossi, e poi il famoso quadro della Morte della Vergine. E come Lena (Micaela Ramazzotti), che sarebbe diventata l'ispirazione della Madonna della Serpe, e della Madonna dei Pellegrini. Le prostitute diventano Madonne: una vera rivoluzione, un vero ribaltamento di ruoli, che la Chiesa non poteva accettare. Quello che fa bene il film di Michele Placido è proprio quello di far capire, in modo semplice, come sono nate quelle opere d'arte, che cosa possiamo vederci dentro, il loro senso più intimo. Non è una cosa da poco, perché il cinema, quando racconta un personaggio, tende a concentrarsi sulla sua vita, e raramente a farci capire il senso della sua arte, pensiamo a tutti i biopic su rockstar e cantanti. Per questo, come vi abbiamo detto, L'ombra di Caravaggio, come film, non è un'opera d'arte, ma è un film sulle opere d'arte. È un buon film, che ha il pregio di essere perfettamente funzionale, diremmo propedeutico, allo studio e alla comprensione dell'arte di Caravaggio. Uscirete dalla sala non con la voglia di rivedere questo film, ma con quella di andare a farvi ipnotizzare e abbagliare dalle opere di Caravaggio. Per chi vive a Roma, la città ne è piena: non fatevi sfuggire questa opportunità. Ma quel che conta è che Michele Placido, da regista, ha messo da parte il suo ego, e, con umiltà, si è messo al servizio di Caravaggio e ha voluto valorizzare la sua arte. Certo, è un cinema a tinte forti, decise, come tutto il cinema di Placido. È un cinema crudo, brutale - ma era così la vita del tempo - che magari risulterà un po' duro per chi è abituato a vedere Caravaggio solo attraverso i suoi quadri. Michele Placido prova a raccontare la storia immergendola nei colori tipici del Caravaggio, quelli che qualcuno vedeva come "solo nero, grigio, senza sfumature" e che invece sono diventati uno stile riconoscibile e immortale. La fotografia del film ha quella patina, quell'atmosfera, anche se non utilizza a pieno certi chiaroscuri e certe luci incidentali, marchio di fabbrica del pittore, che comunque ci sono in certe inquadrature. È un film che, a tratti, pecca di una recitazione troppo teatrale, troppo impostata, in alcuni attori. Ma non in quelli principali. Riccardo Scamarcio, ancora una volta sorprendente, si cala alla perfezione nel ruolo, bello e maledetto, e Isabelle Huppert è una dama che sembra uscita da un quadro, e Gianfranco Gallo è un Giordano Bruno straordinario. Il Caravaggio che esce dal film è una rockstar ante litteram. I capelli lunghi, lo sguardo fiero, la furia iconoclasta e la voglia di rompere ogni schema e ogni conformismo sono quelli di un cantante rock. Caravaggio è sexy e carismatico come Jim Morrison, è sfrontato e "rovinato", come Iggy Pop, è empatico verso gli ultimi come lo era il Lou Reed che cantava le persone che camminavano sul lato selvaggio della vita. Accanto a Scamarcio c'è un cast ricchissimo, dall'Ombra Louis Garrel, alle "madonne" Micaela Ramazzotti e Lolita Chammah, fino a Vinicio Marchioni e Alessandro Haber. È un film da vedere al cinema. Per poi immergersi nella visione di quei quadri immortali.
Maurizio Ermisino (Movieplayer.it)
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