Commedia di Wes Anderson con Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand 108 minuti - USA 2021
Seppur con un anno di ritardo per i motivi che ben conosciamo, The French Dispatch di Wes Anderson è riuscito a fare il suo debutto a Cannes 2021 e a cominciare così la sua marcia trionfale che lo porterà nelle sale di tutto il mondo il prossimo autunno e, chissà, forse anche fino agli Oscar. Magari lo stesso percorso che toccò a Grand Budapest Hotel, maggior incasso in assoluto tra le opere del regista e ben quattro statuette vinte a fronte di nove nomination.
D'altronde anche in questo nuovo film rimangono immutate alcune delle caratteristiche che avevano decretato il successo del precedente film in live action. Il che, come vedremo in questa recensione di The French Dispatch, può essere sia un bene che un male. Quello che è certo è che con ogni nuovo film, Wes Anderson non fa altro che confermare il proprio stile e la proprio visione di cinema, spesso anche a costo di sacrificare qualcosa in termini di contenuti, privilegiando sempre e comunque la forma.
Partiamo però proprio dai contenuti e dal titolo: The French Dispatch è un supplemento giornalistico di un fittizio giornale del Kansas che ha lo scopo di raccontare quel che avviene in Ennui-Sur-Blasé, una cittadina francese altrettanto immaginaria. Sotto la guida del bizzarro editore e proprietario Arthur Howitzer Jr (Bill Murray), un eterogeneo gruppo di giornalisti lavora lì da anni raccontando la vita inaspettatamente vivace di questa provincia francese tra artisti scoperti dal nulla, rivolte culturali, rapimenti di minori e semplice quotidianità.
Tutto il film non è altro che un omaggio non solo alla carta stampata e al giornalismo, ma - come evidente dalle tante (finte) copertine del French Dispatch presenti del film - soprattutto al New Yorker, un magazine noto per la sua invidiabile linea editoriale e per quella sofisticatezza e ricercatezza, anche estetica, così vicina al cinema di Anderson. Ed è un peccato che il regista non ci mostri di più proprio della sua "redazione", delle sue dinamiche lavorative, privilegiando invece la pubblicazione stessa.
Il film diventa così una sorta di "numero speciale" della rivista, con tanto di copertine, crediti e soprattutto i vari servizi, ognuno col proprio stile e la propria struttura (formattazione) narrativa. Come dicevamo per Wes Anderson la forma è tutto ed è per questo che arriva addirittura a fare in modo che oltre metà del suo film sia praticamente in bianco e nero (con soltanto qualche brevissimo sprazzo di colore) proprio come gran parte della pagine stampate delle riviste.
Una scelta coraggiosa che potrebbe sembrare quasi contradditoria rispetto al suo stile sempre coloratissimo, ma che in realtà è anche coerente con i cambi di genere che adotta per ciascuno dei suoi racconti (reportage): il film d'autore, quello di impegno social, il noir. Cambiano le storie, cambiano gli attori, ma quello che rimane costante è la ricerca dell'inquadratura e delle geometrie perfette. Come sempre ogni inquadratura è un vero e proprio tableau vivant: se fossimo davvero in una rivista fisseremmo per ore quelle illustrazioni, alla ricerca di sempre nuovi dettagli. Ma i ritmi di Anderson sono velocissimi, il voice over sempre esasperato, ed è così che probabilmente si finisce col perdere molto del senso ultimo dell'esperimento che vuole essere The French Dispach: si perde quella lentezza, quella calma e soprattutto quell'approfondimento che è tipico di chi vuole godersi una bella rivista e dei buoni pezzi giornalitici.
Una delle primissime cose che colpisce di The French Dispatch è il cast veramente impressionante a disposizione del regista: impossibile e inutile stare ad elencare tutti i nomi coinvolti, basterebbe dire che ai (tanti) habituè del regista si aggiungono importanti new entry, tra cui spiccano Timothée Chalamet, Léa Seydoux, Elisabeth Moss, Benicio Del Toro e Jeff Wright. Solo ad alcuni però è permesso di brillare, perché purtroppo in moltissimi casi la presenza della star non aggiunge altro se non il proprio volto ad una galleria tanto impressionante quanto poco sfruttata. È quasi come se in alcuni casi gli attori non fossero altro che parte dell'eccellente scenografia e nulla di più. Non c'è spazio per alcuna introspezione, non è richiesta mai un'interpretazione degna di questo nome, a Wes Anderson sembra interessare la mera presenza. Il che non fa altro che rafforza i legittimi dubbi che il tutto non sia altro che un mero esercizio intellettuale e di maniera, un film in cui il protagonista assoluto è sempre e comunque il regista che, pur non comparendo mai direttamente, con il suo stile aleggia imperioso su ogni inquadratura, sovrastando tutto e tutti. Perfino il film stesso.
Luca Liguori (Movieplayer.it) |