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Mercoledì 03 Luglio 2024
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GRAZIE A DIO
Drammatico
di François Ozon
con Melvil Poupaud, Denis Ménochet, Swann Arlaud, Éric Caravaca, Francois Marthouret
137 minuti - Francia 2019

Il diciannovesimo lungometraggio di finzione di François Ozon, di cui ci accingiamo a parlare in questa recensione di Grazie a Dio, è forse il film più impegnato del cineasta francese: Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino 2019, è il resoconto (parziale, come ammette la pellicola stessa) di un vero scandalo legato al clero transalpino. Siamo a Lione, nel 2014: Alexandre Guérin (Melvil Poupaud), quarantenne padre di famiglia, decide di denunciare apertamente alla Chiesa gli abusi subiti da bambino per mano del prete Bernard Preynat (Bernard Verley). Questi ammette di aver compiuto numerosi atti di pedofilia, ma non chiede scusa alla sua vittima ormai adulta. Dinanzi alla passività del cardinale Barbarin (François Marthouret), Alexandre dà il via a una vera inchiesta giudiziaria, che lo metterà in contatto con altre due persone molestate da Preynat: François Debord (Denis Ménochet) ed Emmanuel Thomassin (Swann Arlaud). Insieme, cercheranno di trovare il modo per chiarire la questione una volta per tutte. C'è spesso stato un gusto della provocazione nel cinema di François Ozon, nel bene e nel male, solitamente alternato a incursioni più misurate in generi che possono apparire convenzionali (basti pensare al recente Frantz). Grazie a Dio spinge quel senso della misura quasi fino ai limiti: si ride pochissimo, quasi sempre involontariamente, durante la visione di questo dramma serio basato su una triste realtà, quella dello scandalo sessuale all'interno del clero che ancora oggi attanaglia la città di Lione (i titoli di coda ci ricordano che il caso è tutt'altro che risolto alla fine del 2018, quando c'è stata la prima proiezione pubblica del film). Una ferita ancora aperta, mascherata per anni da un imbarazzante silenzio nei confronti del quale il lungometraggio di Ozon è una sorta di liberatorio grido di dolore: 137 minuti di spietata condanna, con pochi sprazzi di humour nerissimo, come quando l'omertoso cardinale Barbarin, turbato dall'uso del termine "pedofilo" per motivi etimologici ("Un pedofilo è uno che ama i bambini, e Gesù insegna che bisogna amarli, entro certi limiti"), spinge Alexandre a proporre l'alternativa "pedosessuale". È un film molto francese nella scrittura, alquanto verboso, ma con una sensibilità notevole nel giocare sui silenzi, partendo da quelli che affliggono la comunità da decenni. Gran parte della prima metà, dominata dalla sola storia di Alexandre, mostra le sue comunicazioni telematiche con Barbarin e altri esponenti della Chiesa sotto forma di voci narranti, mentre sullo schermo i personaggi camminano o stanno seduti senza aprire bocca. Allo stesso modo il silenzio detta in parte le interpretazioni dei tre attori principali ed è la vera forza motrice della pellicola, in termini narrativi e formali, fino ad arrivare a quei pochi momenti di grazia (forse divina?) in cui l'assenza di parole è una liberazione e non più un peso. E proprio il peso delle parole, quando ci sono e quando invece vengono a mancare, è il filo conduttore dell'intero film, già partire dal titolo, quel "Grazie a Dio" la cui applicazione come frase nella vita di tutti i giorni diventa parte integrante della trama in un momento clou dove si intravede tutta la sagacia irriverente di Ozon. Grazie a Dio (By the Grace of God nel titolo internazionale) non aggiunge, di per sé, nulla di particolarmente nuovo al "filone" dei film di denuncia su scandali di pedofilia e abusi in seno alla Chiesa, e arrivando nelle sale a pochi anni di distanza da Il caso Spotlight può essere specialmente ingrato il paragone per quanto riguarda la componente giornalistica, che nel film di Ozon è una sottotrama. Ma c'è una carica di rabbia considerevole dietro le molte parole spese dai protagonisti, una grinta verbale che va oltre un certo anonimato estetico (fanno eccezione i brevi flashback sulle molestie di Preynat, che col passare del tempo assumono toni quasi horror) per far uscire alla luce del sole un caso controverso che le alte sfere lionesi cercano tuttora di insabbiare, costringendo il regista a girare il film di nascosto, annunciandolo solo a riprese concluse, e uscire dal territorio francese per le sequenze ambientate all'interno degli edifici religiosi (le chiese sono tutte situate in Belgio o Lussemburgo). Quella rabbia, unita ad una coerenza etica inattaccabile, impreziosisce ulteriormente una visione non facile, ma in fin dei conti appagante.
Max Borg (Movieplayer.it)
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