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THE HAPPY PRINCE - L'ultimo ritratto di Oscar Wilde
Commedia
di Rupert Everett
con Rupert Everett, Colin Firth, Colin Morgan, Edwin Thomas, Emily Watson
105 minuti - Italia, Belgio, Gran Bretagna 2018

Dopo aver fatto visita allo humor wildiano più volte recitando nei garbati Un marito ideale e L'importanza di chiamarsi Ernest, Rupert Everett ha deciso di non attendere più il ruolo che sognava da tempo e se lo è regalato da solo. Il divo inglese si è rimboccato le maniche e ha sancito il suo esordio alla regia con un'opera complessa e delicata, un biopic incentrato sulle ultime disperate settimane di vita di Oscar Wilde. Oltre a essere uno degli scrittori più importanti al mondo, Wilde è stato eletto icona del libero pensiero per i suoi sistematici assalti alla società perbenista vittoriana che gli ha dato tutto per poi strapparglielo via con violenza. Nel mondo anglosassone star come il cantante Morrissey, che hanno fatto un vessillo della propria ambiguità sessuale, hanno scelto Oscar Wilde come loro nume tutelare e anche Rupert Everett ha reso nota in più occasioni l'affinità con l'anticonformista autore de Il ritratto di Dorian Gray. Così, dopo aver interpretato Oscar Wilde a teatro in The Judas Kiss, Rupert Everett ha deciso di forgiare il giusto tributo al connazionale. In The Happy Prince, l'attore non si risparmia. Invecchiato e imbolsito, il divo sfrutta ogni singola ruga del viso mettendola al servizio del suo personaggio. Attraverso un uso sapiente del flashback rivediamo un Oscar Wilde poco più giovane, appena uscito dal carcere, che si concede un soggiorno a Napoli insieme al giovane e depravato amante Bosie, causa della sua rovina. Ma a occupare la maggior parte del film sono gli ultimi giorni di vita dello scrittore, rifugiatosi a Parigi, ormai devastato dai vizi e dalla malattia. Da questo punto di vista, Everett risparmia ben poco allo spettatore mettendo in scena, non senza un lieve compiacimento, il disfacimento corporeo dello scrittore che sembra andare di pari passo con la sua natura viziosa. A sottolineare la dimensione ciclica del film è la storia del Principe Felice, fiaba che dà il titolo alla pellicola, declamata dallo scrittore dapprima in voice over e poi narrata, in campo, a uno dei suoi piccoli protetti. Il Wilde di Rupert Everett non ha perso l'arguzia e il gusto per i salaci giochi di parole, ma rispetto ai precedenti ritratti è una figura profondamente tragica, invisa alla società perbenista, abbandonata da tutti all'infuori dei pochi amici che lo accudiranno fino alla morte. Tra questi spiccano Robbie Ross (Edwin Astley), amante di Wilde che gli rimase fedele anche dopo la sua scomparsa, e Reggie Turner (Colin Firth), scrittore e membro del circolo di Wilde. L'attenzione del regista è, però, concentrata sull'unica donna della vita di Wilde, la moglie Constance (una Emily Watson sofferente, ma composta), che continuerà ad amare tenacemente il marito anche dopo essere stata costretta a bandirlo dalla propria vita e da quella dei figli. In linea con gli eventi narrati, Rupert Everett costruisce una pellicola dal mood mortifero, dominata dai toni del grigio e del nero. Le sortite di Wilde si consumano soprattutto alla luce delle candele, nei sordidi locali notturni della Parigi malfamata, o in esterni cupi e piovosi. A spezzare questa atmosfera crepuscolare, seppur per poco, interviene la breve parentesi napoletana, con tanto di sortita sul Vesuvio ed eruzione a cui Wilde assiste stupito dalla propria terrazza. L'attenzione del regista si concentra sui singoli dettagli nel tentativo di creare un ritratto puntuale di un'epoca. A questo sforzo di veridicità contribuiscono arredamenti, costumi e un makeup accurato usato per riprodurre le varie fasi del decadimento fisico di Oscar Wilde. A conti fatti, The Happy Prince è un monumento funebre, un'ingegnosa lapide animata alla figura di Wilde. Grazie al proprio carisma, lo scrittore domina su tutto e tutti mettendo in ombra tutti coloro che gli stanno vicino. Nell'economia del racconto Bosie e Robbie, i suoi amanti storici, sono poco più che pallide comparse, figure deboli, meno interessanti di quanto potrebbero, capaci di esistere solo all'ombra del loro mentore. L'unico personaggio di levatura pari allo scrittore, nella visione everettiana, potrebbe essere Constance, figura dolente le cui apparizioni sono ricche di pathos, ma ridotte. Seppur presente in poche scene, Constance è in grado di turbare i sonni del marito e l'influenza che esercita sulla sua mente ci viene mostrata attraverso le visioni che tormentano lo scrittore sul letto di morte. Patetico e grottesco, l'Oscar Wilde sofferente che intona The Boy I love is Up in the Gallery sotto lo sguardo degli avventori di una bettola di Montmarte è un artista consumato dai propri demoni, ma è anche un uomo provato da un'esistenza oltre i limiti in cerca di una disperata redenzione. Redenzione che, offuscata dallo champagne, assenzio e cocaina, arriverà inaspettatamente nella persona di un brusco parroco irlandese. Il canto del cigno dello scrittore diviene oggetto dell'esordio dietro la macchina da presa di un attore noto per i suoi eccessi e le sue provocazioni. In uno strano gioco di specchi, nel sentito omaggio al suo mentore Rupert Everett proietta la fine del suo passato da sex symbol, sancita dalla trasformazione fisica, ma approda anche a una possibile rinascita. La redenzione di Rupert passa dall'arte, la stessa arte che non è stata sufficiente a Wilde per risollevarsi da una vita spesa a precipitare negli abissi. Sul letto di morte Wilde sembra trovare consolazione nel battesimo e nell'estrema unzione. D'altronde lui stesso soleva dichiarare che "il cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire".
Valentina D'Amico (Movieplayer.it)
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