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Mercoledì 03 Luglio 2024
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FRANTZ
Drammatico
di François Ozon
con Pierre Niney, Paula Beer, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow
113 minuti - Francia 2016

"Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi", recita una celebre frase di David Foster Wallace tratta da Il re pallido: un assunto che pare adattarsi a meraviglia anche a un'ampia sezione del cinema di François Ozon, laddove le dinamiche dei rapporti e dei sentimenti si configurano in base alla dicotomia fra presenza e assenza, fra il desiderio e la perdita. Basti ricordare, a tal proposito, film quali Sotto la sabbia del 2000, opera della consacrazione per il regista francese, o al recente Una nuova amica del 2014 (e, in misura minore, a Il tempo che resta e Il rifugio, altre due pellicole costruite attorno all'idea del lutto e della rinascita). Così come d'amore e di fantasmi - in chiave metaforica - si parla pure in Frantz , trasposizione di un testo teatrale di Maurice Rostand del 1930, L'homme que j'ai tué, già portato sullo schermo due anni dopo da Ernst Lubitsch. Un ritorno, per Ozon, al cosiddetto period drama, ma restando pur sempre nel territorio del melodramma, genere estremamente congeniale a questo più che degno erede di Rainer Werner Fassbinder, mai timoroso di affrontare e rielaborare i canoni del cinema del passato. Perché, almeno in apparenza, il melodramma messo in scena da Ozon con Frantz si pone agli antipodi rispetto ai tocchi almodóvariani e alle pennellate postmoderne di Una nuova amica; al contrario, il regista e sceneggiatore parigino adotta una cifra stilistica basata su un rigore impeccabile, a partire dalla descrizione della provincia tedesca nel primo dopoguerra e dal lavoro tutto "in sottrazione" rispetto alla materia narrativa, ovvero il lutto per la scomparsa del personaggio del titolo, un soldato caduto durante il conflitto. Frantz (impersonato in alcuni brevi flashback da Anton von Lucke) era l'unico figlio del signor Hoffmeister (Ernst Stötzner), uno stimato medico di paese, e di sua moglie (Cyrielle Clair), i quali dopo la morte del ragazzo hanno continuato ad ospitare nella loro casa la fidanzata di Frantz, Anna (Paula Beer). Un giorno alla porta degli Hoffmeister si presenta un giovanotto di nazionalità francese, Adrien (Pierre Niney); accolto da un'iniziale ostilità, Adrien rivela alla famiglia Hoffmeister di essere stato legato a Frantz da un'intensa amicizia. La sincera commozione di Adrien e i resoconti delle giornate trascorse a Parigi in compagnia di Frantz diventano un ideale balsamo in grado di lenire il dolore dei due genitori, nonché quello di Anna; la quale già dopo breve tempo si accorge di provare uno speciale senso di empatia nei confronti del nuovo arrivato. Da qui in poi, l'intreccio si dipana lungo binari spesso sorprendenti e imprevedibili (e di cui è bene svelare il meno possibile), fra segreti, confessioni e svolte repentine che metteranno tanto Anna quanto Adrien di fronte a scelte tutt'altro che semplici. Perché accanto a loro, e accanto ai coniugi Hoffmeister, gravita ancora quell'assenza che pesa come un macigno: Frantz, come si diceva in apertura, è infatti una sorta di fantasma costantemente evocato dalla memoria dei personaggi. Uno 'spettro' a cui non a caso Ozon riserva l'onore del titolo, come per la Rebecca di Alfred Hitchcock: perché è attorno alla figura invisibile di Frantz che si addensano e si riconfigurano le pulsioni, i rimorsi e le inquietudini di chi è rimasto in vita, e con quell'assenza è costretto a fare i conti in ogni singolo istante. Quello intessuto da François Ozon è dunque un anomalo 'triangolo' su cui agiscono i pesi e i contrappesi di una bilancia che vede sui piatti da un lato la tenerezza, la passione e la voglia di continuare a vivere, dall'altro un ineludibile senso di colpa: la colpa di chi, come Adrien, ha assistito agli orrori della Prima Guerra Mondiale avendo la fortuna di esserne uscito illeso e la colpa di chi, come Anna, si sente incatenata alla fedeltà verso il defunto promesso sposo. In Hiroshima mon amour, il personaggio di Emmanuelle Riva pronunciava una frase indelebile: "Come te anch'io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza; e come te ho dimenticato". Anche Anna e Adrien, in un certo senso, provano il terrore di poter dimenticare - dimenticare un sentimento, dimenticare una parte della loro umanità - e pertanto rimangono avvinghiati alle rispettive sofferenze; almeno fin quando una frase di perdono non offrirà l'impulso per un nuovo viaggio, alla volta di Parigi e in direzione dell'orizzonte di un potenziale futuro. Ma come già indicato, questa volta Ozon si limita a suggerire le evoluzioni e i turbamenti dei suoi protagonisti: Frantz, difatti, è un melodramma sussurrato e sommesso, in cui le emozioni scorrono sottopelle e vengono quasi sempre trattenute, fino ad un punto di rottura. E a parlarci dello stato d'animo dei personaggi sono, prima che le parole, le immagini: la magnifica fotografia di Pascal Marti immerge il film in un raffinatissimo bianco e nero, altro elemento che contribuisce a rievocare il modello fassbinderiano di Effi Briest (attenzione, però: il mélo di Ozon non scivola mai nella freddezza, a differenza delle opere del suo nume tutelare). Ma all'improvviso, la rigida compostezza di questo bianco e nero si riempie di colore, nel momento in cui un barlume di felicità illumina, anche se solo per pochi attimi, la realtà dei protagonisti: come nella meravigliosa sequenza finale, in cui, quasi per un sublime paradosso, la contemplazione de Il suicida, olio su tela di Edouard Manet, pare dischiudere un nuovo raggio di speranza. Perché in fondo, come capita non di rado nel cinema di Ozon, l'arte resta il veicolo privilegiato e insostituibile per raggiungere la libertà.
Stefano Lo Verme (Movieplayer.it)
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