Drammatico di Francois Ozon con Arthur Peyret, Sergi Lopez, Alexandra Lamy, Mélusine Mayance 90 minuti - Italia, Francia '09
A volte i film si comportano come gli uomini e come loro (cioè come le persone) rischiano di mostrare all' interlocutore il volto meno accattivante e più rabbuiato. Succede agli esseri umani (per ragioni troppo complicate per essere indagate) e succede anche ai film che, per scelta del regista questa volta, si «offrono» in modi che - diciamo così - possono sembrare poco attraenti. Ricky, il decimo film di François Ozon, è uno di questi. Prima scena: un' inquadratura fissa del volto scarmigliato di una donna che sta spiegando (all' assistente sociale fuori campo) le difficoltà che ha a tirare avanti, con una figlia di sette anni e un neonato che piange sempre, senza notizie dal padre del piccolo che l' ha abbandonata, senza lavoro perché per accudire il bebé ha dovuto lasciare l' impiego in fabbrica, e quindi senza i soldi per pagare l' affitto. Il tono della recitazione, la luce e lo stile delle riprese, i temi sono quelli del cinema d' impegno sociale e lo spettatore comincia ad aspettarsi un film alla Ken Loach o alla fratelli Dardenne. Solo allo spettatore francese, che ha riconosciuto nella protagonista la comica televisiva Alexandra Lamy, star della serie Un gars, une fille, forse può scattare in testa un piccolo segnale d' allarme (che ci fa un' attrice come lei in un film così tetro?), ma per tutti gli altri l' incontro con la prima scena è come quello con un uomo dal volto corrucciato e triste: promette solo cupezze e dispiaceri. E il salto indietro nel tempo della seconda scena («Qualche mese prima», dice una didascalia) sembra confermare le primissime impressioni: per una buona mezz' ora il film descrive la vita tutt' altro che allegra della protagonista Katie, la sua fatica ad alzarsi la mattina per andare a lavorare, l' assennatezza a volte fin irritante della figlioletta di sette anni Lisa (Melusine Mayance), l' incontro con il piacente operaio Paco (Sergi López) che dopo averla messa incinta si trasferisce a vivere con lei (e una guardinga Lisa) aspettando la nascita del piccolo Ricky. Fino a questo punto il film non ha contraddetto le prime impressioni: narrazione realista, ambientazione pauperistica e inevitabili conflitti tra Katie e Paco quando la cura del bambino finisce per dividerli, imponendo a lei di lavorare di giorno e a lui di notte. Fino al momento in cui la presenza di strani lividi blu sulle scapole di Ricky fanno pensare alla donna che il padre l' abbia trascurato o addirittura picchiato. Ed è qui, quando la tragedia sembra toccare il suo punto più basso (Paco offeso dalle insinuazioni se ne va) e lo spettatore si aspetta che il film prosegua sulle orme del melodramma lacrimoso raccontato fino a quella scena, è in questo momento che il film cambia completamente strada. E come in Ricky si noteranno i segni di una «mutazione» che lascerà gli spettatori a bocca aperta, allo stesso modo Ozon muta completamente registro, abbandonando il melò per virare verso il surreale e il meraviglioso. Per evitare di rovinare la sorpresa a chi guarda non possiamo svelare niente di più (e la storia a questo punto è a malapena arrivata a metà) ma si può almeno sottolineare l' implicita «lezione di cinema» che il regista francese sembra voler impartire allo spettatore. Qualche critico francese ha ricordato Hitchcock e la sua abilità nell' ingarbugliare le piste che apriva davanti agli occhi ma un paragone di questo tipo rischia di portare fuori strada perché in questo film non c' è alcun mistero da svelare. La mutazione di Ricky resterà senza spiegazione perché non sempre il cinema ha bisogno di spiegare la libertà che rivendica e che mette in gioco. Proprio come in questo caso, dove la cupezza (mai fastidiosa, bisogna aggiungerlo) della prima parte si stempera in una leggerezza sorprendente e meravigliosa, che un inutile sottotitolo aggiunto all' edizione italiana («Una storia d' amore e di libertà») sembra voler indirizzare verso una interpretazione dal valore metaforico. E invece il bello del cinema, e di Ricky, è proprio che alla fine ognuno è libero di trarre la morale che vuole. Anche in barba alle slabbrature e alle incongruenze che il film non si preoccupa di nascondere (di fatto il periodo che corrisponde alla prima scena con l' assistente sociale non si vede mai) e che anzi diventano una nuova dimostrazione delle libertà che il cinema può regalarci.
Paolo Mereghetti (Corriere della Sera) |