Commedia di Ang Lee con Liev Schreiber, Imelda Staunton, Demetri Martin, Eugene Levy 120 minuti - USA '09
Ang Lee non è un cineasta raffinato, ma accattivante sicuramente sì. Lo conferma «Motel Woodstock», passato in concorso all'ultimo festival di Cannes, in cui il taiwanese americanizzato si propone di celebrare con adesione un po' posticcia il mito della controcultura americana fine anni sessanta: sia pure non incluso (caso raro) nella lista dei premiati, il film ripropone infatti un'atmosfera, un'ambientazione, uno slancio esistenziale e persino una gamma cromatica in grado di rievocare i film e le fotografie dell'epoca... Quella del megaconcerto che dal 15 al 18 agosto 1969 segnò uno dei momenti cruciali della storia del rock, radunando mezzo milione di persone sotto il segno di «pace, amore e musica» e promuovendo esibizioni leggendarie di artisti come Joan Baez, Joe Cocker, Janis Joplin, Carlos Santana, The Who, Jimi Hendrix e moltissimi altri. Trasponendo l'autobiografico «Taking Woodstock» di Elliot Tiber (Rizzoli), Lee tralascia le canzoni dai diritti assai costosi e si concentra sui preparativi, i retroscena e gli effetti collaterali sulla base del protagonismo diretto e indiretto dell'autore (sullo schermo l'imbambolato Demetri Martin), allora trentenne segretario della camera di commercio della sonnolenta cittadina di Bethel, a nord di New York, dove più precisamente si verificò l'evento. L'aspetto gradevole del film sta nel fatto che non si prende troppo sul serio e descrive lo scomodo contatto fra la gretta comunità provinciale e gli esaltati capelloni alternando in surplace beatificazione e demistificazione. Da una parte sembra che la libertà trionfi - in un turbinio prevedibile quanto spassoso di jeans a zampa d'elefante, guru indiani, erba, acido e sballi a profusione, nudi integrali, libero amore e deliri ideologici-, dall'altra interessa soprattutto che Elliot, motivato dai debiti che gravano sullo sgangherato motel di famiglia, dia libero sfogo alla sua natura omosessuale e si liberi dalla nefasta isteria di mammà, un'Imelda Staunton efficace ancorché ai limiti del macchiettone. Il reducismo nostalgico non è mai una chiave significativa, ma per fortuna la «commedia senza cinismo» (parole di Lee) non dimentica d'inserire qualche stilettata a proposito del business che s'incorpora ipso facto nello show finendo, in fondo, con tramandare la commovente debolezza dei sogni trasgressivi della generazione hippie.
Valerio Caprara (Il Mattino) |