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Mercoledì 03 Luglio 2024
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BAARÌA
Drammatico
di Giuseppe Tornatore
con Monica Bellucci, Raoul Bova, Laura Chiatti, Nino Frassica, Luigi Lo Cascio
150 minuti - Italia, Francia '09

Bagheria, provincia di Palermo. Il paese dove Peppuccio Tornatore è nato e cresciuto si è trasformato per la gloria della Mostra in una saga audiovisiva fitta di avvenimenti e personaggi trasfigurati dall'amore e dal dolore, dall'ironia, dalla nostalgia e anche dall'autocritica. «Baarìa», appunto, un luogo e un sentimento che solo lo stretto dialetto siciliano può rievocare senza tradire il dettaglio, ma anche senza rinunciare alla magia capace d'attraversare il tempo - dagli anni Trenta agli Ottanta - con tutta la forza di cui ancora sa giovarsi il cinema. Una forza tutta di linguaggio, tutta interna al racconto alla quale sono disabituati gli spettatori d'oggi e con la quale il regista, con la complicità di Morricone, rischia la retorica e sfida la magniloquenza per approdare invece alla trascinante libertà della poesia. Il bambino che tiene il filo dei ricordi appeso alla coda della Storia, incarnandosi in tre generazioni della famiglia Torrenuova, non a caso nei momenti culminanti metaforicamente vola: sopra le case della cittadina stagliate sui terragni sfondi tufacei, certo, ma anche sui tormenti dell'esistenza umana, spauriti nell'infanzia, ringhiosi nell'adolescenza, gravi nella maturità ed estenuati sulla soglia dell'ultima svolta. Questo è «Baarìa» del nostro regista più importante, onnipotente nel gesto e insieme tenero, quasi indifeso nella passione, «integrale» nella dedizione eppure non integralista nel pensiero, sempre autobiografico ma tanto imbevuto dell'essenza filmica da riuscire sempre a rispecchiarsi nei più amati e studiati predecessori, capace d'inventarsi due protagonisti perfettamente in tono come Francesco Scianna e Margareth Madè e insieme di affidare decine di cammei divertenti o commoventi a una marea di volti noti. Proprio come succedeva negli anni del lungo dopoguerra, quando un analogo intarsio ad alta resa narrativa era praticato dai maestri neorealisti così come dai campioni dei generi: se l'umile Cicco, suo figlio Peppino militante del Pci e il nipote Pietro sedotto dalle utopie del Sessantotto risultano credibili e intensi, insomma, lo devono anche ai numeri, a volte strepitosi, che gli allestiscono intorno il comiziante Michele Placido, il giornalista Raoul Bova, il guitto Vincenzo Salemme, la ieratica veggente Lina Sastri, il compagno col cappotto buono Leo Gullotta, l'ossessivo Beppe Fiorello che immutabile negli anni spunta in un angolo della piazza offrendo improbabili commerci... È un coro profondamente siciliano, reso peraltro universale da alcuni temi particolarmente cari all'autore: lo sguardo survoltato dell'infanzia, il rapporto tra arte alta e arte popolare, la contaminazione tra religione e superstizione, la fascinazione per il «mostruoso» intesa come sopravvivenza dell'arcaico e antidoto all'omologazione, l'identità della militanza comunista nazionale. Ci sono infatti numerosi episodi, dialoghi e colpi di scena che affrontano, mantenendosi sempre audacemente in bilico tra verismo e visionarietà, nodi cruciali dell'evoluzione del Pci, andandone a cercare le radici nobili e faziose, le liturgie dirigiste, le semplificazioni ideologiche, il vibrante e a tratti vincente senso di solidarietà collettiva e responsabilità individuale. Se, come recita un recente libro inchiesta di Telese, «qualcuno era comunista», i protagonisti di «Baarìa» lo sono nella fisicità e nell'espressione, nelle aperture grandiose in campo lungo (le lotte per la riforma agraria) e nel grottesco avvilimento di un interno di sezione per il compagno traditore («passò al Psi»), nei girotondi elettorali ad altoparlanti spiegati e nel rituale dell'offerta di un polpo gigantesco all'ospite Guttuso. In sottofinale, laddove il film forse si allunga troppo ed eccede nel riannodare tutti gli indizi disseminati nella sua recherche, Peppino ribadisce il suo credo riformista (cercare di cambiare il mondo con il buon senso senza tagliare la testa a nessuno). Sarebbe assurdo, però, rincorrere con puntiglio le parole in un kolossal dell'anima che preferisce parlare con le ombre e con la luce. Ancora arroventati dal pathos di Tornatore (ma raggelati dal torpore della platea specializzata), eccoci alle prese con l'horror di culto «Rec2» dello spagnolo Jaume Balaguerò. Se il primo capitolo, datato due anni orsono, è stato una rivelazione, la replica non eccita più neanche sul piano dell'estremismo disgustoso. Troppi mostri e troppi vomiti finiscono con generare noia anziché provocazione.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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