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Mercoledì 03 Luglio 2024
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IL CANTO DI PALOMA
Drammatico
di Claudia Llosa
con Marino Ballón, Susi Sánchez, Magaly Solier, Efraín Solís
94 minuti - Perù, Spagna '08

Il canto di Paloma di Claudia Llosa racconta la storia drammatica di Fausta nata da uno stupro. Nutrendosi, assorbe fobie da cui si difende con un tubero. Realtà e magia: questo è Il canto di Paloma (La teta asustada, Perù e Spagna, 2009, 94'). Alla sua opera seconda (premiata con l'Orso d'oro alla Berlinale), la trentaduenne peruviana Claudia Llosa scrive e gira una storia di morte e di vita. A Lima, nella povertà di un "barrio" assolato e polveroso, vive Fausta (Magaly Solier), una giovane india a cui la paura ha rubato l'anima. Così si racconta, e si crede. Tutto quello che le riesce di fare per tener lontana l'angoscia di questo suo vuoto, di questa sua mancanza, è intonare tristi canti in quechua, la lingua che al Perù viene dall'antico impero Inca. E cantando Fausta dà l'addio estremo a sua madre. Così inizia Il canto di Paloma, il cui titolo originale sta per «il seno impaurito»: con il primo piano di una donna all'apparenza molto vecchia – ma forse solo consumata da quello che ha visto e subito –, che ci racconta di 20 e più anni prima, quando la guerriglia di Sendero Luminoso era all'apice. Incinta di Fausta, fu violentata ( «Mia figlia da dentro vedeva tutto ») e fu costretta a mangiare «il pene morto» del suo Josefo. Al culmine del racconto, e dello strazio, la vecchia india muore. Della sua morte il pubblico è avvertito da niente altro che dal canto esile e straziato della figlia. Di questo soffre Fausta, della malattia che proprio in quegli anni la credenza popolare riferiva ai molti stupri compiuti dai ribelli. I figli delle donne violentate, si diceva, ne bevevano lo spavento succhiando alla loro «teta asustada». Un'altra credenza s'era diffusa in quegli anni. Per tener lontana la violenza, si immaginava, occorreva mettersi una patata nella vagina: qualunque uomo ne avrebbe pro-vato ribrezzo. Questo crede Fausta, e questo fa. Dentro di sé nasconde quel talismano, quell'unica difesa che le resta, dopo che il male e la violenza le hanno rubato l'anima. Impaurita fin nelle viscere, teme non solo gli uomini, ma anche di affrontare da sola le strade di Lima. Ora, d'altra parte, deve riportare il corpo della madre nel suo villaggio. Dunque, le serve denaro, e le serve coraggio. Mentre così entriamo nella storia triste e magica di Fausta, la sceneggiatura ci immerge nella vita del barrio, e ce ne mostra appunto l'anima, che nessun veleno e nessuna violenza sono riusciti a svuotare. Costruite con materiale grezzo, piccole e povere, le sue case stanno in cima a una collina che non conosce il verde delle piante e dell'erba. Ci si arriva arrampicandosi lungo centinaia di scalini bianchi. Nascono dal niente, quegli scalini, dal niente che sta laggiù in basso, dove inizia a vivere una città quasi del tutto estranea. Visti da qui, i giorni sono un ripetersi di giochi e di riti. Nella loro povertà, gli uomini e le donne vivono una tenera ricerca di felicità. E si sposano, soprattutto si sposano. Questo almeno testimonia e racconta il cinema di Llosa: matrimoni che seguono a matrimoni, con spose, sposi e parenti che portano tutti fieri abiti felicemente vistosi ed eccessivi. E poi ancora: bambini e adulti che danzano, e che nella danza danno ai loro corpi un'armonia antica, come se per secoli non fossero stati derubati del loro passato. C'è amore per la vita, nel barrio di Fausta. C'è persino nel rito triste delle donne che cospargono di oli l'india morta. Sanno come fare, tutte attorno a quel corpo nascosto da un telo. Lo sanno perché sempre hanno dovuto conservare i loro cadaveri: non c'è mai stato altro modo per dimostrare che "prima" esistevano. Non c'è mai stata un'anagrafe, non c'è mai stato un documento che li riconoscesse e che di loro facesse esseri umani tra esseri umani. Eppure, con una tenacia pari a quella con cui si ostinano a sorridere, sempre hanno dato testimonianza del loro esser vivi. In fondo, anche nella vagina di Fausta c'è una paradossale speranza di vita. Impegnata a raccogliere il denaro sufficiente per trasportare la madre fino alla sua tomba lontana – dentro una cassa a noleggio, magari, o spedendola come un pacco postale –, la giovane donna attraversa i suoi giorni come si attraversa un territorio infido e denso di pericoli. Ma lo fa cantando. Le parole e la musica le crescono nel cuore come nel ventre le crescono i germogli di quel suo talismano contro la paura. Questi e quelle nascono spontanei, e nella loro povertà nascondono una ricchezza insospettata. Delle prime, di nuovo derubandola, approfitterà Aida, la musicista nella cui casa Fausta fa la serva. Ma dai secondi, che ostinati vogliono uscirle fuori e «venire alla luce», nasce alla fine una decisione di vita. È povera come una patata, quella vita, e misera come i suoi fiori. Ma è forte come la felicità degli adulti e dei bambini che nel barrio non smettono di danzare.
Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
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