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Mercoledì 03 Luglio 2024
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IL PROFETA
Drammatico
di Jacques Audiard
con Niels Arestrup, Tahar Rahim, Adel Bencherif
149 minuti - Francia '09

Il genere è quello carcerario, ma grazie all'assoluto controllo di regia «Il profeta» («Un prophète») si staglia sulla terra di nessuno dove il cinema è solo e semplicemente cinema. Proprio come «Gomorra», che non si limitava come hanno recepito alcune categorie di spettatori a esporre fotocopie di realtà, il film di Jacques Audiard (figlio del dialoghista Michel, uno dei padri del cinema francese sconsacrato dalla Nouvelle Vague) ha la forza di ricreare in un romanzo di formazione criminale i meccanismi antropologici, psicologici, culturali, etnici e di classe che condizionano un itinerario individuale contro/dentro/nella collettività. Intanto non c'è bisogno alcuno - ottimo segno - di sviscerare la trama dettaglio per dettaglio perché si penalizzerebbe la sorpresa di scoprire attraverso quali, talvolta insostenibili, sensazioni di terrore, suspense o ripugnanza si verrà condotti a condividere habitat, codici, gerghi, gesti, abiti e persino strategie di potere e sensi di colpa dei maggiori e minori personaggi. Malik entra in carcere a 19 anni, semi analfabeta e privo di legami con l'esterno e nell'interno. Condannato a sei anni, diventa schiavo del boss còrso Cesar Luciani, compie un atroce rito d'iniziazione, impara a giocare d'astuzia per la sopravvivenza, s'imprime nella mente le gerarchie e le divisioni che scandiscono la ferocia del microcosmo darwiniano. Attorno a questo perverso rapporto biblico s'intrecciano con impietosa coerenza i ritratti (dis)umani di un ingranaggio basato sul proseguimento delle attività delinquenziali, il culto della brutalità, l'ambiguo scambio di ruoli con l'autorità penitenziaria, lo scontro mortale tra i clan tradizionali e quelli dei dilaganti «fratelli» musulmani (les barbus, i barbuti). Scontata interamente la pena, l'umiliato maghrebino senza casacca si sarà costruita un'identità del tutto nuova, non lontana da quella investigata dagli epici affreschi dello Scorsese di «Casinò» o del Buscemi di «Animal Factory», che lo spettatore potrà sentire sulla propria pelle senza l'ausilio di trucchi narrativi, teoremi sociologici, indicazioni terapeutiche e qualsivoglia contrappeso di retorica vittimistica, espiatrice o mitizzante. Persino rispetto ai classici americani, «Il profeta» si basa su una maggiore audacia fenomenologica, sul rigore di uno stile ancora più incandescente - a tratti iperrealistico, a tratti simbolistico - e su recitazioni che vanno addirittura ad affiancarsi a quelle mitiche di Pacino, Redford, Newman. Audiard, infatti, grazie all'accanita perfezione del dosaggio tra luci, effetti sonori, scelte d'inquadratura, movimenti di cinepresa e incastri di montaggio può tramandare alla pari, come indelebili (magari nei nostri incubi) protagonisti, tanto l'abbagliante novizio Tahar Rahim quanto il ciclopico veterano Niels Arestrup. Due ore e mezza sono lunghe, ma nel caso de «Il profeta» scandiscono la durata di un capolavoro.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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