Questo sito si avvale di soli cookie tecnici necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Chiudendo questo banner o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.
Maggiori informazioni | Chiudi
Mercoledì 03 Luglio 2024
Parrocchia S.Stefano
di Osnago
...una comunità in cammino!
Mappa del Sito Corrispondenza
Home Parrocchia Gruppi Parrocchiali Oratorio Scuola Materna Cine-Teatro Link
ALEXANDRA
Drammatico
di Alexandr Sokurov
con Vasily Shevtsov, Galina Vishnevskaya
92 minuti - Russia 2007

Oppressa dalla fatica, dal caldo e dagli anni, una vecchia signora viene accompagnata da due giovani soldati lungo i binari di una stazione ferroviaria. Arrivata fin sotto un treno blindato, altri soldati la aiutano a salire in una carrozza buia e spoglia, lei e il carrellino con le ruote che le serve da valigia. Intorno, tutto è polvere e desolazione. Così comincia il film scritto e diretto dal grande Aleksandr Sokurov: con questo contrasto "materiale" fra la macchina della guerra e il corpo fragile dell'ottantenne Alexandra (la soprano Galina Vishnevskaya, che fu moglie di Mstislav Rostropovich). È un viaggio paradossale, quello raccontato in Alexandra (Alexsandra, Russia e Francia,2007, 95'). La sua partenza è la normalità della vita di una nonna tenera e affettuosa, e il suo arrivo è un'altra normalità, ma questa volta do-lorosa, e ancor più squallida. Alexandra è diretta a Grozny. Là, tra le macerie della capitale cecena, c'è suo nipote Denis (Vasily Shevtsov), capitano dell'esercito d'occupazione russo: non lo vede ormai da 7 anni, ed è riuscita ad avere un permesso per raggiungerlo in un campo militare posto al limite della zona di guerra. È tutta qui l'idea narrativa da cui Sokurov ha tratto il proprio film, ma la sua capacità di sorprendere è pari a quella di un grande viaggio inaspettato, appunto. Non si vede la guerra, nel film. O almeno non la si vede al lavoro, per così dire. Non ci sono spari, non c'è il terrore immediato della morte. Anche i segni lasciati da quelli e da questa, dagli spari e dalla morte, son tenuti nascosti, in secondo piano. Solo dopo la metà del film, dietro e al di sopra di un povero mercato dominato dalla fame, la macchina da presa scopre le case di Grozny, su cui i russi hanno scaricato le loro bombe. Diroccate, pericolanti, sventrate, tuttavia in quel poco che ne resta in piedi vivono esseri umani. Alexandra entra in una di queste "tane" a malapena scampate alla distruzione. E in sala ci sorprendiamo della normalità ordinata che nonostante tutto vi abita: mobili, sedie, un piccolo fornello elettrico, una pentola per il tè. Fuori, intanto, il mondo è in pezzi. Non c'è limite – così sembra – al desiderio di vivere, o anche solo di sopravvivere. C'è poi un'altra normalità, opposta e complementare, in Alexandra. È quella che la protagonista scopre al campo. Niente vi è di marziale. Nelle tende c'è puzza di fatica e di sudore, di uomini ridotti a vivere come bestie. Per nulla marziale le appare anche Denis, addormentato su una branda. È tanto poco eroico, il capitano, quanto i suoi vestiti luridi e i suoi piedi neri di sporco. Più tardi, il nipote la fa entrare in un blindato, forse per mostrarle il senso del suo "lavoro". Ma tutto quello che la donna vede è la miseria polverosa di una cabina troppo stretta per la ventina di soldati che ci dovrebbero entrare. C'è un odore greve, nella penombra del blindato: un odore di uomini a lungo accalcati e immobi-li, un odore di metallo e di grasso, un odore di morte senza gloria. Chi sono, poi, quegli uomini? Con gli occhi Alexandra, anche noi li vediamo fra le tende, nei posti di guardia, intenti a pulire i mitragliatori: sono tanto giovani e tanto inconsapevoli, che non riusciamo a immaginarli mentre uccidono, e mentre muoiono. Come e più che all'inizio del film, la vecchia signora è "incompatibile" con la cieca, stupida materialità della macchina della guerra. Non ne è spaventata («È facile», dice quasi ironica a Denis, dopo che questo le ha messo un fucile in mano e l'ha invitata a prender la mira, come per sparare). Piuttosto, ne è sorpresa e rattristata. Lo è tanto, che nessuno –né il nipote, né i comandante del campo, né i soldati che dovrebbero controllarla – riesce a fargliene rispettare le regole. Di queste regole, infatti, Alexandra vede e sente subito l'assurdità umana. Prima e più che una ribellione, la sua è un'insofferenza immediata, insieme morale e materiale, appunto. Dopo aver mostrato la sindrome paranoica del potere, e del potente, in grandi film come Moloch (1999) e Il sole (2005), Sokurov volge lo sguardo del suo cinema al più cruento degli strumenti cui il potere s'affida: il suo diritto di decidere della morte di nemici e amici, in nome di grandi parole come eroismo o patria. «Che cos'è la patria?», ci si domanda infatti in Alexandra. Ma non c'è risposta, a parte la normalità misera e squallida di chi uccide e di chi vive nel terrore d'essere ucciso. Dietro tutto questo c'è il conflitto ceceno,e c'èlacritica di Sokurov al nuovo nazionalismo russo. Ma c'è anche, forse ancora più forte, la sua convinzione che sia insuperabile il contrasto materiale tra la macchina della guerra e i nostri corpi fragili.
Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
 Versione Stampabile 
 Invia questa pagina 
Area Riservata | Privacy | Regolamentazione
Parrocchia Santo Stefano | Via S.Anna, 1 | 23875 Osnago (LC) | Tel. e Fax 039 58129 | Codice Fiscale 85001710137
Sala Cine-Teatro don G.Sironi Tel. 039 58093 - 349 6628908