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Mercoledì 03 Luglio 2024
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COUS COUS
Drammatico
di Abdel Kechiche
con Habib Boufares, Marzouk Bouranouia, Bruno Lochet, Sabrina Ouazani
151 minuti - Francia 2007

Il cinema è finzione, ma ci sono dei film che ci fanno toccare la verità. Il cinema si basa sulla recitazione ma ci sono dei film che riescono a trasmettere spontaneità e immediatezza. Il cinema tende per sua natura alla semplificazione, ma ci sono dei film che sanno restituire il senso (e il valore) della complessità. Couscous (traduzione corretta ma riduttiva dell' originale La graine et le moulet, la semola e il muggine, componenti essenziali per il couscous di pesce) è uno di quei rari film veri, coinvolgenti e densi che riconciliano lo spettatore con il cinema e fanno pensare che spettacolo e intelligenza possono ancora andare sottobraccio. Ma che mettono il critico di fronte ai limiti di un approccio che rischia di banalizzare sulla carta quello che sullo schermo è ben più complesso. Il film racconta il tentativo del sessantenne Slimane (Habib Boufares), immigrato da una vita e operaio nei cantieri navali di Sète, di trasformare una vecchia nave in disarmo in un ristorante specializzato nel couscous di pesce, che la sua ex moglie Souad (Bouraouia Marzouk) sa fare in maniera prelibata. Ma per realizzare il sogno di «lasciare qualche cosa ai figli» dovrà superare tutti gli ostacoli che banche e burocrazia gli mettono davanti, mentre lui può contare praticamente solo sull' appoggio della figliastra Rym (Hafsia Herzi), perché anche la sua nuova compagna Latifa (Hatika Karaoui) non vede di buon occhio il coinvolgimento culinario dell' ex moglie. E così decide di organizzare una serata dimostrativa sulla nave-ristorante, a cui invitare chi potrebbe essere coinvolto nell' iniziativa (per i finanziamenti o i permessi) e dimostrare la bontà della sua idea. Mai come in questo film, però, la trama rischia di portare fuori strada lo spettatore, dare l' impressione di una percorso lineare quando invece il regista cerca costantemente di spezzettare il racconto, per approfondire ora un personaggio, ora le dinamiche di gruppo, ora una situazione. Se Slimane è il protagonista indiscusso del film, la macchina da presa è attratta anche dai molti ruoli femminili - il «confronto a distanza» tra ex moglie e nuova compagna, le figlie di primo letto, la figliastra, le amiche di famiglia - e dalle relazioni che si accendono tra di loro: di affetto, di cameratismo, di invidia, di solidarietà, di complicità, di tensione. A Kechiche riesce di raccontare i personaggi attraverso i rapporti che innescano tra di loro, ora attorno alla tavola domenicale dove domina il couscous di Souad (una scena magistrale, dove lo spettatore ha la sensazione di essere uno dei molti invitati, tanto le riprese lo fanno sentire al centro del racconto), ora nel silenzio della cameretta dove vive Slimane, ora intorno ai tavolini di un bar dove passano le giornate gli amici musicisti. Così il cinema nasce soprattutto dall' incontro tra caratteri e situazioni, dalla coralità dei gesti e degli sguardi, dalla dimensione «sociale» più che psicologica in cui si muovono i suoi attori. Sulla strada aperta da Pagnol e da Renoir. Per ottenere questo senso di immediatezza e di verità insieme, Kechiche unisce due elementi apparentemente contraddittori: una sceneggiatura e dei dialoghi «di ferro», dove niente è lasciato all' improvvisazione, e una scelta di attori dove dominano i non professionisti. Costringendo gli uni a confrontarsi con un testo preciso, facendoli provare molto prima delle riprese in modo da far assimilare agli attori il senso e la lettera dei dialoghi così da farli propri e poi lasciando massima libertà di movimento sul set, Kechiche riesce nel miracolo di restituire la verità e insieme la freschezza della vita. Che una o due macchine da presa, guidate da tecnici altrettanto coinvolti nelle prove, riescono a «imprigionare» in immagini straordinariamente ricche ed emozionanti. E la cena finale, dove la sbadataggine di un figlio di Slimane rischia di mandare tutto a gambe all' aria, diventa la sintesi e l' apoteosi di un cinema capace di raccontare le tante facce di un ambiente sociale troppe volte banalizzato: quello degli immigrati di prima e seconda generazione, della loro integrazione, dei loro rapporti con le varie facce della Francia, ma anche delle tensioni e delle solidarietà che si instaurano tra di loro... E che Kechiche racconta senza nessuna forzatura o sottolineatura, quasi fosse timoroso di voler mettere la parola fine a un ritratto in movimento, che continua ad arricchirsi di nuovi particolari e di nuove sfumature, si tratti di una estenuante danza del ventre o di una altrettanto estenuante rincorsa per un motorino rubato. E se in questo modo la narrazione sembra fermarsi, in una sospensione che non sapresti se definire magica o miracolosa, è per effetto della genialità di un modo di fare cinema che riesce a lasciare nello spettatore il senso e il palpito della vita (per sua natura inafferrabile e sempre in divenire) e non limitarsi a una «bella» ma inerte storia a lieto fine.
Paolo Merghetti (Corriere della Sera)
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