Drammatico di Giuseppe Tornatore con Piera Degli Esposti, Alessandro Haber, Angela Molina, Claudia Gerini, Michele Placido 118 minuti - Italia 2006
Hanno un bel chiamarla Valarchi (immaginaria località in provincia di Treviso, come si apprende da un medaglione che nella vicenda assume il ruolo di deus ex machina), ma l' inferno neoclassico che superbamente emerge dalle immagini di La sconosciuta è la mia Trieste. Ignoro per quale civetteria Giuseppe Tornatore non l' ha voluta nominare, ma dai servizi pubblicati da «Il Piccolo» durante la lavorazione del film so che il regista ne ha subito il fascino. «Peppuccio» non aveva mai affrontato i 158 chilometri che separano la città giuliana da Venezia, proprio come molti (troppi?) fra quelli che conosco, tanto che a volte mi riassale il dubbio che i 600 mila morti della prima guerra e i duri travagli conseguenti alla seconda siano stati vani. Ovvero che delle tergestine «bellezze di mare e di contrada» di cui cantò il poeta, oltre che dalle altre infinite attrattive della plaga, i «fratelli d' Italia» non sanno che farsene. Mi ha colpito che Tornatore, buon ultimo fra i pellegrini tardivi, abbia lodato da intenditore la «luce di Trieste», forse ignorando che questo è proprio il titolo di un bel libro d' immagini curato a suo tempo da Pier Antonio Quarantotti Gambini. Mi ha ancor più colpito che in contrasto con l' incanto luminoso La sconosciuta abbia colto della città il versante in ombra piuttosto che quello solare. Ai piedi del colle di San Giusto coabitano due anime, il palpito vitalistico di Slataper e la morbosa autoanalisi di Svevo; e a complicare le cose soffia dall' est la bora mescolando echi di valzer asburgici a guerreschi clangori balcanici. Tutto ciò è presente nell' odissea dell' immigrata ucraina Irena (una stupenda scoperta attoriale, Xenia Rappoport), dilaniata fra le ferite del passato, le frustrazioni profonde e le incognite del futuro in un ingegnoso e laborioso melò di cui affiorano poco a poco gli allucinanti contorni romanzeschi. Anche chi sarebbe tentato di definire il film un Matarazzo rilegato in pelle deve riconoscere che il contesto degli orrori, crudamente evocato fra lampi di memoria e pericoli incombenti, appartiene alla cronaca dei nostri anni, come del resto l' approdo finale a una «serena disperazione» (mi concedo ancora una citazione da Saba). Quanto all' ambientazione, ci sono dei film che «indossano» ambienti e paesaggi come un vestito, magari bello e figuroso, che potrebbe essere un altro; qui, grazie alla sensibilità di un vero cineasta, è come se il quadro fosse una proiezione del tormento della protagonista. Il senso del racconto, espresso nel personaggio della bimba che dovrà vincere se stessa per trasformarsi in una giovane donna, è che solo chi cade può risorgere. Una morale pragmatica, anche questa bizzarramente intinta di triestinità. Tullio Kezich (Il Corriere della Sera)
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