Drammatico di Richard Eyre con Bill Nighy, Cate Blanchett, Judi Dench 92 minuti - Gran Bretagna 2006
È liscia la pelle di Sheba Hart (Cate Blanchett). Così annota Barbara Covet (Judi Dench), e così dice la sua voce fuori campo in una delle prime sequenze di Diario di uno scandalo (Notes on a Scandal, GranBretagna, 2006,92'). Sembra non ci siano dubbi: è attrazione sessuale, quella che induce la matura insegnante di storia a irretire la giovane col-. lega. Eppure, nel film che Richard Eyre e lo sceneggiatore Patrick Marbe ritraggono da un racconto di Zoe Heller c'è qualcosa che disturba questa lettura: qualcosa che inquieta, e che l'eros non spiega.
Il film inizia nello stesso luogo dove fluirà: in cima a una collina da cui, lontano e in basso, si intravede un quartiere di Londra. Barbara siede su una panchina, sola. Nei suoi occhi, nel suo sguardo irrigidito e difeso da mura impenetrabili, si leggono rabbia fredda e presunzione. La mia solitudine, così sembra voler dire, non è debolezza, ma superiorità. Certo, nel corso del film più volte Barbara mostra di soffrirne. Eppure, sempre elude il proprio dolore capovolgendolo, e facendone un segno di nobiltà interiore, quasi un'eroica necessità morale.
In una pagina del diario, peraltro, questa sua difesa almeno per un attimo cade. Sono così sola, scrive, che un contatto casuale e minimo con il conduttore di un autobus basta a scatenare in me un'esplosione di desiderio. Forse a partire da qui, dal desiderio che la invade e la domina, può essere compresa la sua rigidità emotiva, e la sua spietata ricerca di un “oggetto” su cui avventarsi. E a noi pare non si tratti di un desiderio erotico, ma di una tensione più profonda e più devastante, che nell'eros certo si manifesta, ma che all'eros non si limita.
Quando Diario di uno scandalo inizia, la sceneggiatura si preoccupa di raccontare Barbara all'interno della scuola in cui insegna. È disprezzo quello che vive in lei e la guida, tanto nei confronti dei colleghi quanto nei confronti degli studenti. I primi le appaiono nella loro goffaggine e nella loro pochezza, frustrati da anni di umiliazioni, rassegnati alla burocrazia, ridotti a carcerieri di adolescenti che non riescono, ma forse neppure vogliono educare. Ed essi, gli studenti, sono per lei nemici, e anzi proprio degli inferiori (anche socialmente), che meritano solo d'esser tenuti lontani e dominati.
È questo il segreto della sua solitudine, questa “presunzione” di non partecipare alla miseria umana da cui si sente circondata, e rispetto alla quale fantastica di una sua vaga superiorità, che peraltro mai cerca di mettere alla prova. Dunque si irrigidisce,Barbara,si chiude e si difende. Certo, agli studenti non riesce a perdonare d'esser così apertamente, scandalosamente giovani. Quanto ai suoi colleghi, non può riconoscere d'essere fallita proprio come loro. Insomma, non può accettare di vedersi per quel che è, o per quel che è diventata: un'insegnante senza passione, una donna invecchiata e grigia.
Ma forse la sua miseria non è opera del tempo. Forse, così è sempre vissuta, chiusa e presuntuosa. Forse, la sua realtà è sempre stata dolorosamente inadeguata alle sue illusioni. Forse, ancora, quel che l'ha mossa e la muove è odio: un odio che si alimenta di sorda, disperata invidia. Non è nessuno, Barbara. E per così dire “vuota d'essere”, ma non può ammetterlo. Per questo si costringe a disprezzare quelli che le sono più vicini e più lo somigliano: per non vedersi specchiata in loro e nella loro nullità. Per lo stesso motivo è tentata di insinuarsi nella vita di chi, invece, le appaia colmo di valore e di superiorità.
Così le sembra Sheba: morbida trentenne, figlia di un economista famoso, sposata con un professore universitario raffinato. Quando la scorge, in lei vede una preda di cui la sua immagine fantasticata può alimentarsi. Non conta che Sheba sia piena di insicurezze: sposata con un uomo troppo vecchio, insoddisfatta, schiacciata dal ricordo del padre, tanto debole da lasciarsi amare da un quindicenne. «Sono una buona moglie e una madre mediocre», così Sheba dice di sé. È davvero troppo poco, per invidiarla.
D'altra parte, come per lo più accade, l'invidia raccontata da Eyre e Marber non bada alla realtà, ma insegue un fantasma. La Sheba che Barbara vede non èla stessa che vediamo noi. Nell'illusione della sua pelle morbida, per lei Sheba è solo un surrogato della propria immagine di sé. Io e te siamo uguali, le urla. Ed è come se provasse ad appropriarsene, a incorporarla, a cibare della sua giovinezza e della sua fantasticata “pienezza d'essere” la sua realissima miseria. Non c'è eros, al centro di Diario di uno scandalo. Il desiderio che lo attraversa somiglia invece a un freddo, feroce cannibalismo dell'anima. Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
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