Azione di Joseph Kosinski con Tom Cruise, Miles Teller, Jennifer Connelly, Jon Hamm 131 minuti - USA 2022
Un altro cerchio si chiude con la recensione di Top Gun: Maverick, film che arriva finalmente nelle sale quasi due anni dopo la data inizialmente prevista (e nella stessa occasione passa al Festival di Cannes, che lo aveva prenotato per la fantomatica edizione 2020). Arriva al cinema uno dei film-simbolo della pandemia, più volte rimandato per poter sfruttare la distribuzione convenzionale anziché ripiegare sulla soluzione provvisoria dello streaming in tempi di crisi sanitaria. Una possibilità, quest'ultima, che molti temevano dal momento che la Paramount, prima del lancio della propria piattaforma, ha venduto molti dei suoi titoli previsti per gli ultimi due anni a Netflix o Amazon Prime Video. E durante la presentazione del film al CinemaCon a Las Vegas il produttore Jerry Bruckheimer ha confermato che offerte in tal senso ci sono state, tutte respinte da lui e dal produttore/protagonista Tom Cruise perché il ritorno in scena di Pete "Maverick" Mitchell è da assaporare sullo schermo più grande possibile, con un impianto audio che sappia rendere giustizia a questo nuovo viaggio lungo l'autostrada che conduce alla Danger Zone.
Top Gun: Maverick è ambientato qualche decennio dopo gli eventi del capostipite, e Maverick è ancora in attività, sempre con il rango di capitano perché i suoi metodi poco ortodossi non vanno giù alle alte sfere della marina militare (e lui stesso non ama le promozioni). Dopo aver fatto infuriare un ammiraglio (Ed Harris) che caldeggia l'uso dei droni, Maverick rischia di perdere tutto, ma viene salvato dall'ex-rivale Tom "Iceman" Kazansky (Val Kilmer), che lo recluta per addestrare una nuova generazione di piloti nella stessa scuola che loro due hanno frequentato quasi quarant'anni fa. Un incarico delicato, per due motivi: il corso va completato in un arco di tempo abbastanza breve, in quanto legato a una missione speciale ad alto rischio in territorio nemico (il film non precisa mai esattamente dove, per non compromettere l'uscita internazionale); e tra gli studenti c'è il tenente Bradley "Rooster" Bradshaw (Miles Teller), che non è mai andato completamente d'accordo con Maverick per quello che è accaduto anni addietro a suo padre, il compianto Goose (Anthony Edwards, presente in spezzoni d'archivio).
Come molti film recenti che riesumano proprietà intellettuali di decenni passati, il sequel di Top Gun rientra nella categoria del legacyquel, tradizione che abbraccia con orgoglio nei primi minuti del film: il font dei titoli di testa è lo stesso, la sequenza anche (più o meno), il logo della casa di produzione di Jerry Bruckheimer è quello di quando il socio Don Simpson era ancora in vita, e c'è di nuovo il medley del tema musicale di Harold Faltermeyer (tornato a occuparsi della colonna sonora insieme a Lady Gaga e Hans Zimmer) e dell'immortale brano Danger Zone. Un inizio nostalgicamente adrenalinico, così come la sequenza in cui Maverick torna nel luogo che lo ha reso una leggenda. C'è tutto: gli occhiali da sole, il giubbotto, la moto, la corsa a fianco dell'aereo con tanto di saluto. È esattamente come ce lo ricordavamo, come se il tempo si fosse fermato (impressione facilitata dal volto non ancora del tutto invecchiato di Tom Cruise, che a breve spegnerà sessanta candeline).
Ma poi arriva la doverosa riflessione sulla differenza tra ieri e oggi, quella che giustifica l'esistenza del film: Maverick è a tutti gli effetti una leggenda nel suo ambiente, ma tale condizione è sufficiente per rimanere rilevante nel mondo odierno? Lui non è cambiato, ma attorno alle sue imprese c'è stata un'evoluzione, non sempre in positivo (il ruolo ridotto di Kilmer tiene conto dei problemi di salute che limitano tantissimo la sua capacità di esprimersi verbalmente). Le alte sfere gli chiedono di stare al passo coi tempi, in attesa che i droni lo sostituiscano una volta per tutte. Eppure, Maverick resiste, e non senza l'aiuto dei suoi allievi che fanno tesoro di una delle sue perle di saggezza: "Non è l'aereo che conta, è il pilota." E proprio questa attenzione ai personaggi, al loro ruolo in una realtà geopolitica e cinematografica che non è la stessa del 1986, fa sì che questo secondo capitolo si elevi, e non di poco, al di sopra dell'originale, che era visivamente spettacolare ma umanamente un po' vuoto.
Maverick lotta per giustificare la propria esistenza, e lo stesso fanno il film e il suo protagonista, giocatori analogici in un mondo digitale. Trent'anni fa, Cruise era l'emblema della star che riusciva a portare il pubblico in sala a prescindere dal tipo di film in cui recitava (tra il 1992 e il 2006 tutti i lungometraggi di cui era l'interprete principale incassavano almeno 100 milioni di dollari nei soli Stati Uniti). Oggi i franchise (incluso il suo Mission: Impossible, dal quale si è portato dietro lo sceneggiatore Christopher McQuarrie) sono più grandi di lui, ed è necessario dimostrare che lavorare all'antica - effetti pratici e artigianali, uso minimo di CGI e l'ormai collaudato metodo del girare i propri stunt senza controfigura - ha ancora un senso nell'era dei blockbuster talmente virtuali che, soprattutto in epoca pandemica, si arriva persino a proiettare su un apposito schermo gli ambienti fotorealistici con cui interagire sul set.
E la dimostrazione arriva in modo diretto e a dir poco spettacolare, con sequenze aeree dalla fattura tecnica ineccepibile che però hanno uno scopo drammaturgico preciso, senza mai scivolare nell'attrazionismo fine a sé stesso. Siamo dinanzi al blockbuster più puro e sincero da tempo immemore, capace di coniugare passato e presente nel modo migliore. Perché se il personaggio di Maverick è, per certi versi, un dinosauro, non per questo lui, e le tecniche cinematografiche che lo portarono sullo schermo ai tempi, meritano l'estinzione. Ed è anche per questo, a dieci anni dalla sua scomparsa, è ancora fondamentale ricordare il compianto Tony Scott nei titoli di coda. Perché anche se alla regia adesso c'è Joseph Kosinski (che applica e migliora le lezioni del legacyquel imparate con Tron Legacy), la lezione del cineasta inglese è ancora ben presente. Questo è un esempio letterale, travolgente, commovente, di come non li facciano più come un tempo.
Max Borg (Movieplayer.it) |