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LA TERRA DEI FIGLI
Drammatico
di Claudio Cupellini
con Leon de La Vallée, Paolo Pierobon, Maria Roveran, Fabrizio Ferracane, Maurizio Donadoni
120 minuti - Italia 2021

Ruggine, fango, brutalità. Apriamo la nostra recensione de La terra dei figli con tre parole venute a galla ripensando al film di Claudio Cupellini. Un'opera dura, amara, drammatica, che puzza di morte e disperazione. Lo stesso odore marcio dello splendido fumetto di Gipi da cui è tratto. Anzi, liberamente tratto. Uscito cinque anni fa, La terra dei figli tirò fuori il lato più essenziale del tratto e della scrittura di Gipi. E lo fece grazie a una storia in cui il disegno faceva rima con le parole: tutto era scarno, affilato, rinsecchito. Tutto si specchiava nei volti scarni, nelle mani nodose dei suoi personaggi, nella decadenza di un mondo svuotato di speranza. Elementi fondamentali che ritroviamo in un film difficile, complesso eppure riuscito come La terra dei figli. Pur squarciando in parte il velo di mistero che avvolge il fumetto, Cupellini ha carpito l'anima del racconto di Gipi e (cosa né facile, né scontata) l'ha saputa riprodurre sul grande schermo. E allora, navighiamo in questo stagno placido che è La terra dei figli, alla scoperta di un film italiano con il coraggio di essere insolito e indigesto. Come si definisce un mondo che ha smarrito le parole per raccontarsi? C'è apocalisse peggiore di un'umanità senza nomi, senza definizioni, senza storie? È questo il dilemma esistenziale da cui parte La terra dei figli. Il mondo non è più quello di prima: qualcosa ha dimezzato la popolazione, che ora vive di stenti, dentro baracche rancide, grazie a baratti primordiali. Non è vita, è sopravvivenza. Quella che impone la dura legge del più forte, della violenza come arma migliore e dell'affetto come punto debole. Lo sa bene un padre che vive con suo figlio, di cui non sapremo mai i nomi. Un padre severo nei confronti di un figlio allevato quasi come una bestia. Un animale da compagnia utile solo a cacciare e mandare avanti la loro balorda routine piena di fango, ruggine e brutalità. L'unico ricordo della vita di prima, quella che non doveva preoccuparsi di carcasse da scambiare e bocche da sfamare, è un diario in cui il signor Padre scrive pensieri e memorie. Figlio non sa leggere, ma è ossessionato dal contenuto di quello scrigno di pagine che il genitore non vuole svelargli. Il ragazzo inizierà così un viaggio verso il nulla per trovare qualcuno in grado di fare luce su quei pensieri oscuri. È questa la grande fiamma che incendia La terra dei figli: la fame di sapere che non si arrende allo squallore di un mondo in ginocchio. Un mondo più bravo a togliere che a dare. La terra dei figli è un titolo ambiguo. Da una parte racconta di un mondo ormai nelle mani del futuro, dei giovani che sopravvivono ai genitori, del nuovo che resiste laddove il vecchio appassisce. Dall'altra richiama una sorta di fertilità in netto contrasto con l'ambientazione del film. Ovvero un concentrato di squallore e decadenza che la sapiente messa in scena orchestrata da Cupellini restituisce alla perfezione. Ne La terra dei figli il paesaggio non è solo un contesto vuoto in cui muovere i personaggi, ma una parte essenziale ed espressiva del racconto. Qui il paesaggio è un vero e proprio personaggio silente, che piange mestamente in sottofondo tutto il tempo. E in questa capacità di far parlare l'ambiente risiede forse il più grande merito del film. Attraverso dei movimenti di macchina avvolgenti, un montaggio curato, dei costumi logori (perfetti per raccontare la vita passata dei personaggi) e una fotografia asfissiante, La terra dei figli cala lo spettatore in un posto fuori dal tempo e dello spazio. Quella palude in cui si muovono padre e figlio potrebbe essere ovunque, ed è un perfetto specchio della pochezza morale in cui sguazzano tutti. In questa sua indeterminatezza spaesante, il film ci ha ricordato molto Dogman di Matteo Garrone, calandoci in un limbo abitato da barche, palafitte e uomini simili a bestie. In questo clima di reciproca diffidenza, che ha dimenticato il significato della parola "carezze", Cupellini dà forma a un dramma violento, cupo e spietato. Per niente indulgente nei confronti del pubblico, ma volutamente ostile nel metterlo in difficoltà. Prima di lavorare a La terra dei figli, Gipi si era imposto delle regole: niente esperienze personali riversate nel fumetto, niente voce narrante e dialoghi ridotti all'osso. Una scelta che ha reso la graphic novel una lezione di sintesi sia nel disegno che nella sceneggiatura. Da questo punto di vista, purtroppo, il film non riesce a essere efficace e tagliente come l'albo da cui è liberamente tratto. Paradossalmente è come se il più grande pregio del fumetto si sia rivelato il più grande difetto del film. Quasi un'arma a doppio taglio. Questo perché da una parte la recitazione è spesso troppo carica, sopra le righe e forzata, in contrasto con dei dialoghi semplici che avrebbero richiesto più naturalezza. Dall'altra La terra dei figli decide di raccontare poco per volta dei dettagli sull'apocalisse che ha devastato il mondo. Una scelta in controtendenza col fumetto che, invece, lasciava quell'alone di mistero e rendeva ancora più evidenti le conseguenze della fine proprio disinteressandosi delle cause. Se il primo elemento potrebbe far storcere il naso a più spettatori, il secondo è un dettaglio che riguarda solo i lettori del fumetto, e per questo non interferisce affatto con la visione di un film ispirato, riuscito e soprattutto difficile. Difficile come un diario letto da un analfabeta, difficile come un film post-apocalittico che non assomiglia a niente che abbiamo già visto, difficile come un mondo che ha dimenticato il potere delle storie e il calore delle parole.
Giuseppe Grossi (Movieplayer.it)
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