Documentario di Patricio Guzmán 85 minuti - Francia, Cile 2019
Proprio nei giorni in cui prende forma il programma dell'edizione 2021 del Festival di Cannes, che segna il ritorno del grande evento cinematografico dopo l'interruzione forzata del 2020, arriva nelle sale un film che faceva parte della selezione ufficiale della kermesse francese nel 2019 (per l'esattezza era parte delle cosiddette Séances Spéciales, tradizionalmente dedicate ai documentari). Č quindi con un pizzico di nostalgia per le atmosfere di un tempo sulla Croisette che mettiamo mano alla penna (anzi, alla tastiera) per questa recensione de La cordigliera dei sogni, atto finale di una trilogia con cui il documentarista cileno Patricio Guzmán riflette sul proprio paese, dal quale č lontano da decenni a causa di quel tragico episodio che egli cerca di raccontare ed esorcizzare nel trittico che ripercorre pezzi di Storia del Cile attraverso immagini legate agli elementi: l'aria nel 2010, l'acqua nel 2015 e la terra nel 2019.
Patricio Guzmán č nato e cresciuto in Cile, ma dal 1973 vive a Parigi, dopo essere stato arrestato dal regime Pinochet mentre lavorava al suo monumentale progetto sull'ultimo anno del governo Allende (il film č poi uscito in tre parti, tra il 1975 e il 1979). Č tornato piů volte sul doloroso argomento, dedicando film specifici a Pinochet (nel 2001) e ad Allende (nel 2004), e nel 2010 ha avviato una personale trilogia sulle sequele della dittatura militare con Nostalgia della luce, presentato a Cannes. Il secondo capitolo, La memoria dell'acqua, č invece passato in concorso alla Berlinale, prima del ritorno sulla Croisette con La cordigliera dei sogni. Un film che parte dalla Cordigliera delle Ande, che fa parte del territorio cileno sul confine con l'Argentina da un lato e la Bolivia dall'altro, per esplorare la Storia del paese, raccontandone le contraddizioni attraverso la sua conformazione geografica, che rende il Cile sostanzialmente impossibile da invadere dall'esterno ma ha anche contribuito a una certa cultura isolazionista e retrograda. Una cultura che Guzmán e i suoi collaboratori, che gli hanno consentito di completare il progetto a distanza (il regista non mette piede in patria dai tempi dell'arresto) e chiudere una trilogia che vuole anche ricordare al popolo cileno fino a che punto Pinochet abbia danneggiato la nazione.
Tra imponenti ghiacciai e maestose alture rocciose, alternate a interviste che coprono le varie sfaccettature del rapporto tra la geografia e la politica, Guzmán tira le somme di un lavoro durato diversi anni, forse anche una vita intera: dopo aver dedicato praticamente tutta la sua filmografia al post-Allende, il regista sembra suggerire di essere pronto a lasciarsi alle spalle i quattro decenni che ha raccontato senza sosta, perché dal 2010 a oggi c'č stato un cambiamento a livello di mentalitŕ in Cile e non serve piů che lui sia presente, da lontano, per ricordare alle nuove generazioni cos'č successo tra il 1973 e il 1990 (č interessante, da quel punto di vista, anche l'evoluzione del lavoro del connazionale Pablo Larrain, che ha dedicato una "trilogia involontaria" a Pinochet tra il 2008 e il 2012 per poi passare ad altro). Non č esplicitamente un film-testamento, ma c'č il sentore di un lungo capitolo che si chiude, con questo viaggio andino di un'ora e mezza a fungere da epilogo. Una chiusura per certi versi modesta (l'approccio narrativo č meno originale rispetto agli altri due episodi del trittico) e per altri molto ambiziosa, che riassume tutta la poetica di Guzmán in modo efficace e sincero. Č la fine di un viaggio che, come da titolo, ha avuto delle componenti oniriche (a volte con toni da incubo), ed č venuto il momento di svegliarsi. Ma non prima di essersi lasciati trasportare da un altro tipo di sogno, quello incarnato dal grande schermo cinematografico, meta ideale per meditare sul Cile insieme a uno dei suoi piů notevoli esegeti.
Max Borg (Movieplayer.it) |