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Mercoledì 03 Luglio 2024
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DUMBO
Fantastico
di Tim Burton
con Colin Farrell, Michael Keaton, Danny DeVito, Eva Green, Alan Arkin
112 minuti - USA 2019

Se sull'insegna del tuo circo c'è scritto Tim Burton, è lecito attendersi meraviglie, estasi, guizzi geniali. Un convincente numero cinematografico di un grande regista-funambolo, da troppo tempo in bilico tra la vecchia gloria del suo passato e le recenti delusioni di una filmografia ormai priva della forza immaginifica di un tempo. In questa recensione di Dumbo continueremo a percorrere quel filo, perché questo remake del grande classico animato del 1941 cammina di continuo sulla soglia tra lo sconforto e la speranza, il desiderio di prendere la rincorsa e l'incapacità di spiccare il volo. Al di là di ogni inevitabile aspettativa, va subito messo in chiaro che Dumbo è un remake nobile negli intenti, perché lontano dalla recente moda del pavido (e inutile) "copia e incolla" che ha caratterizzato film come La bella e la bestia. Il vecchio cartone animato, essenziale sia nella trama che nell'intreccio, viene arricchito con nuovi personaggi e nuove dinamiche, grazie all'inserimento di una preponderante componente umana affiancata alla storia nota del buffo, piccolo elefante dalle orecchie enormi "che solo una madre può amare". Per Tim Burton quel Dumbo vale dunque da canovaccio, un punto di partenza per imbastire un discorso più ricco, ma non più complesso, perché la morale e il tono danno forma a una classica fiaba disneyana. Questo Dumbo è un film per tutti, anche per i bambini, in cui ci sono soltanto rapidi sprazzi del Tim Burton di un tempo. Quello cinefilo, quello nostalgico dei grandi miti del cinema, quello con la vena anarchica pulsante, sempre pronta a schierarsi con il diverso, il difforme e il deforme. Temi calzanti con il racconto dell'elefantino deriso, emarginato, usato come fenomeno da baraccone. Il risultato è un film che cambia a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Se dall'alto di legittime aspettative o dal "basso" di uno sguardo a misura di bambino: sicuramente più candidi, innocenti e meno maliziosi. La Grande Guerra è appena finita. La gente ha bisogno di sorrisi, distrazioni, spettacolo. Pura spensieratezza per lenire vecchie ferite. Senza perdersi in inutili preamboli, Tim Burton apre il sipario sull'America del 1919, nel cuore di una compagnia circense capitanata dallo strambo signor Medici (un classico Danny De Vito). Il circo non naviga nell'oro. Se ne accorge presto anche Holt, ex punta di diamante del gruppo, tornato dalla guerra senza un braccio e con due figli molto diversi di cui prendersi cura. Eppure, la vera sfida sarà gestire l'arrivo dell'elefante voluto soltanto da chi lo ha messo al mondo. Ed è proprio lui, Dumbo, il punto forte del film. Il suo aspetto, reso con grande cura da effetti digitali per niente freddi ma prodighi di calore e vitalità, riesce a restituirci una creatura capace di comunicare con gli occhi. Davvero un peccato non essersi soffermati di più su sequenze da cinema muto come nel cartoon originale (da Burton ce lo saremmo aspettati), perché l'espressività e le movenze di Dumbo infondono sia empatia che tenerezza in modo immediato. Al di là dei voli del piccolo elefante, Burton ha scelto la via del realismo con il mondo animale: niente topolini parlanti, niente dialoghi e canzoni intonate da mamme con la proboscide. Questo però non significa che il papà di Edward mani di forbice abbia tagliato ogni ponte con il passato. No, perché uno dei punti a favore di Dumbo è l'eleganza di un citazionismo molto sottile, devoto al classico ma non nostalgico. I veri nostalgici, però, sono quelli che cercavano un grande film di Tim Burton. Bambini tratteggiati in modo rigido, antagonisti con la scritta "sono un cattivo malefico" stampata in fronte, personaggi secondari del tutto incolori, come l'acrobata francese di una sprecata Eva Green. Purtroppo la scelta di anteporre il mondo umano a quello animale non risulta felice, perché la scrittura di quasi tutti i personaggi di Dumbo, eccezion fatta per il papà messo in scena da Colin Farrell (a cui è riservata una minima parabola evolutiva), dà vita a un effetto macchiettistico assai superficiale. Una scelta di tono elementare a tratti fastidiosa, soprattutto con il folle imprenditore interpretato da uno spietato Michael Keaton eccessivamente sopra le righe, al limite della parodia. I protagonisti sembrano avere una sola dimensione, scritti e messi in scena con una semplicità quasi ingenua, degna di un film per ragazzi degli anni Quaranta. Una presa di posizione che purtroppo risulta più démodé che vintage, perché oggi è davvero difficile trovare un film per ragazzi senza personaggi complessi, con motivazioni profonde e più chiavi di lettura. Per quanto l'intento di far specchiare una storia di maternità animale dentro una ricerca di paternità umana sia lodevole e apprezzabile, il risultato delude, soffocando la creatività di un regista che poteva trovare nel freak dei freak e nel mondo prodigo di stranezze come il circo terreno fertile per le sue fantasticherie. Il Tim Burton anarchico e leggermente disturbante lo si vede a tratti, a sprazzi. Quando cita i grandi classici del cinema horror senza abusare del digitale e soprattutto quando ci mostra il lato oscuro, spietato e mostruoso che si cela dentro le patinate industrie dell'intrattenimento. Per un attimo sembra quasi che Burton stia cavalcando un cavallo di Troia dentro il cuore di Disneyland, ma non è così. Perché Dumbo si rivela una vecchia fiaba per bambini. Con buona pace di chi cerca ancora il guizzo di un Tim Burton che forse è semplicemente cambiato, meno inquieto, in cerca di una rete sicura sotto i piedi dopo tutti quei film vertiginosi.
Giuseppe Grossi (Movieplayer.it)
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