Biografico, Drammatico, Musicale di Bryan Singer con Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello, Aidan Gillen 134 minuti - Gran Bretagna/USA 2018
Per una volta partiamo dai numeri. Perché nel momento in cui scriviamo la recensione di Bohemian Rhapsody, il film ha incassato quasi 500 milioni di dollari al boxoffice internazionale, diventando così il biopic musicale di maggior successo nella storia del cinema. Numeri da capogiro che rendono benissimo l'idea di quanto Freddie Mercury e i Queen siano amati, ancora oggi, in tutto il mondo. Ma quello che stupisce sono soprattutto gli oltre 150 milioni incassati solo negli USA, una nazione storicamente un po' fredda nei confonti di una band così british nei suoni e nei modi. A partire per esempio dalla celebre riservatezza del cantante morto nel 1991.
Tutto questo vuol dire innanzitutto che, per quanto possa sembrare discutibile a molti fan, un film del genere era fortemente desiderato dal grande pubblico. E che riportare Freddie in vita sul grande schermo sia stata un'idea tanto geniale quanto rischiosa. È proprio questo contrasto a rendere così difficile questa recensione, perché se è vero che ci troviamo davanti a un indiscutibile successo, non possiamo di certo ignorare il metodo quantomeno discutibile che è stato scelto per ottenere questo risultato.
Quando per la prima volta fu annunciato il progetto di un film dedicato a Freddie Mercury, le prime reazioni dei fan furono unanimi: nessuno potrà mai interpretare il leggendario cantante così come nessuno potrà mai riuscire ad eguagliare il suo timbro vocale e la sua tecnica. Con il passare degli anni si sono susseguite diverse ipotesi per il cast di Bohemian Rhapsody (la più accreditata per un periodo era stata quella di Sacha Baron Cohen), fino ad arrivare alla scelta poi definitiva di Rami Malek. Sono bastate poche immagini in costume e la conferma che nel film ci sarebbe stata la vera voce di Freddie (anche se mixata a quella del cantante canadese Marc Matel) a tranquillizzare i fan di tutto il mondo.
E il risultato finale, va detto, è veramente notevole, perché ci sono momenti in cui, da un punto di vista meramente estetico e iconografico, sembra davvero che quelli su schermo siano i Queen di quarant'anni fa. Non solo Rami Malek interpreta (molto spesso) un ottimo Freddie Mercury, ma anche tutti gli attori - in primis Gwilym Lee che interpreta Brian May - riescono a raggiungere una somiglianza fisica e gestuale davvero impressionante. Una meraviglia audiovisiva che culmina nei 20 minuti finali del film in cui viene riprodotto in modo estremamente fedele l'intera partecipazione del gruppo al concerto del Live AID del 1985.
Le indimenticabili canzoni, il carisma naturale di Mercury e il contesto di una delle performance musicali più famose e celebrate di tutti i tempi permettono a Bohemian Rhapsody di chiudere in bellezza e di far uscire dalla sala molti fan con le lacrime agli occhi. E magari anche far nascere un'intera nuova generazione di appassionati. Ma diventa più che lecito chiedersi quanto però sia merito del film e quanto invece dei Queen e della loro musica. Soprattutto quando il resto del film, e quindi tutte le parti non relative alle canzoni e alle perfomance musicali, si trascina a fatica in più di un'occasione e inoltre tradisce, più e più volte, quella pretesa di verosimiglianza su cui invece sembra aver costruito i momenti più riusciti.
Che tutto il film abbia una struttura simile alla canzone che gli dà il titolo è abbastanza evidente. C'è una intro iniziale di grande effetto, una parte centrale drammatica e quasi operistica, ed un energico finale molto rock. Ma è forse proprio il primo verso di Bohemian Rhapsody a rendere al meglio l'idea di quello che veramente rappresenta la pellicola. Si tratta di vita reale o solo fantasia? La risposta è appunto in una via di mezzo fortemente cercata ma che finisce inevitabilmente con lo scontentare tanti. Perché se abbiamo detto che per molti frangenti il film riesce a riprodurre in pieno la storia dei Queen, è anche vero che la sceneggiatura di Anthony McCarten e Peter Morgan sceglie consapevolmente di tradire non solo la realtà dei fatti ma anche lo stesso Freddie Mercury.
Ci sono state tantissime biografie, ufficiali e non, in questi 27 anni che hanno seguito la morte del cantante, eppure in nessuna è mai stato fatto cenno di uno scioglimento (seppure temporaneo) dei Queen o di come la volontà di una carriera solista parallela di Mercury abbia creato tensioni nel gruppo. Anche perché, e questi sono fatti, sia Brian May che Roger Taylor avevano già avuto esperienze del genere al di fuori del gruppo. E in questo caso stiamo parlando soltanto di una, sebbene la più macroscopica e grave, delle imprecisioni presenti in Bohemian Rhapsody, ma tra diagnosi anticipata di due anni, date di tour e canzoni modificate ad hoc, licenze poetiche e omissioni in gran quantità ce n'è davvero per tutti i gusti.
Nella maggior parte dei casi si tratta di modifiche atte a regalare una maggiore tensione drammaturgica ad una storia che, di base, non ne avrebbe. Anche perché, ammettiamolo, i Queen non sono mai stati i Sex Pistols e i loro comportamenti al di fuori del palco mai particolarmente eccessivi o trasgressivi. Certo Freddie era bisessuale ed è morto di AIDS, ma era anche incredibilmente attento alla sua privacy, e raccontare più di quel che già viene fatto sarebbe stato davvero di pessimo gusto. Ecco quindi la necessità in Bohemian Rhapsody di aggiungere elementi più avvincenti a discapito di una realtà dei fatti ben nota a qualsiasi conoscitore e fan del gruppo. Una scelta molto discutibile che, considerata la presenza di May e Taylor nella produzione esecutiva del film, fa pensare se non a una sorta di vendetta vera e propria, quantomeno a un piano premeditato per mettere in una migliore e maggiore luce loro stessi.
Tutto ciò non basta però ad oscurare la luce di Mercury, un vero e proprio gigante non solo della musica ma dell'intrattenimento a cui Rami Malek rende giustizia il più possibile e che comunque resta il cuore pulsante del film Bohemian Rhapsody come lo è stato dei Queen. Ma quelli di cui sopra sono comunque difetti ed errori che influiscono pesantemente su un film che dalla sua ha anche una storia produttiva travagliata - con il licenziamento del regista Bryan Singer e la post-produzione di Dexter Fletcher - e il grosso limite di essere un biopic molto classico per gran parte della sua durata, ma anche un po' monco ed irrisolto, nonché eccessivamente didascalico, nel finale.
Perché la scelta, sicuramente originale se non bizzarra, di fermarsi al 1985 e non raccontare i successivi sei anni di vita e carriera del gruppo e del cantante non può che lasciare un po' l'amaro in bocca, soprattutto pensando che, con la morte di Freddie e il suo testamento artistico rappresentato dall'album Innuendo, gli autori del film paradossalmente avrebbero potuto trovare quella tensione drammaturgica che forzatamente hanno dovuto ricreare e reinventare. Forse stavano già pensando ad un eventuale sequel chiamato The Show Must Go On? Considerati gli incassi e l'entusiasmo del pubblico internazionale non ci sarebbe poi troppo da stupirsi. Freddie di sicuro non si sarebbe scandalizzato, avrebbe magari commentato con la sua iconica frase: "I'm just a musical prostitute, my dear".
Luca Liguori (Movieplayer.it)
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