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STEVE JOBS
Biografico
di Danny Boyle
con Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg
122 minuti - USA 2015

Per chi si chiede quanto senso abbia ancora oggi realizzare l'ennesimo biopic su uno dei personaggi più chiacchierati, odiati ed idolatrati dell'ultimo decennio, forse la cosa più corretta da fare nel recensire questo film è proprio rispondere fin da subito e togliere così ogni ombra di dubbio: assolutamente nessuno. E infatti questo Steve Jobs non è un biopic, non ha alcuna pretesa di voler raccontare qualcosa di nuovo sulla storia dell'ex CEO della Apple, né tantomeno aggiungere ulteriori elementi al dibattito sull'opportunità di santificarlo o demonizzarlo. Il film diretto da Danny Boyle e scritto da Aaron Sorkin ha uno scopo, ed uno scopo soltanto: alimentare la leggenda. E i due cineasti decidono di farlo proprio accentuandone le contraddizioni, senza mai sorvolare sugli aspetti più aspri e difficili del suo carattere come la presunzione o la mania del controllo, caratteristiche tipiche di molti geni, ma al tempo stesso lasciando venir fuori anche le insicurezze e le vulnerabilità di un uomo che, nonostante tutto, si sente continuamente incompreso. Con questo Steve Jobs, la strana coppia Boyle/Sorkin riesce nell'impresa quasi impossibile di riuscire a condensare in un unico film tutta l'essenza di una carriera incredibile ma vera e di una filosofia certamente discutibile ma dall'indubbio e crescente successo. Il film sarà forse un insuccesso al botteghino ed un progetto tutt'altro che necessario per fan e curiosi, non riuscirà forse nemmeno a convincere l'Academy e a guadagnarsi gli allori che pur meriterebbe, ma non abbiamo dubbi sul fatto che, proprio come alcuni prodotti della Apple che molti di noi quotidianamente utilizzano, rimarrà memorabile nel tempo e simbolo di una vera e propria epoca. Perché questo Steve Jobs non è solo, a nostro parere almeno, un grandissimo film che riesce a coniugare straordinarie interpretazioni ad una sceneggiatura eccellente ed una regia brillante ma mai sopra le righe, ma anche e soprattutto un'opera moderna, figlia di un'arte che ormai trascende il mezzo cinematografico ma si fa davvero completa. La divisione in tre atti, per esempio, non può che far pensare immediatamente al teatro, ma anche alle serie TV da cui lo stesso Sorkin proviene: proprio a causa della sua struttura narrativa così particolare ed atipica per il grande schermo, il film sembra quasi una miniserie da 3 episodi da 40 minuti ciascuno; e non semplici episodi televisivi, ma più precisamente tre bottle episodes, ovvero quegli episodi che, molto spesso proprio per ridurre costi di produzione, sono girati su un unico set e circoscritti nel numero di personaggi e di avvenimenti. Sorkin è un maestro in fatto di scrittura (in particolare televisiva, per esempio il suo bottle episode Una difficile rivelazione di West Wing ne rappresenta uno dei massimi esempi) e in questo caso realizza una sceneggiatura volta a valorizzarne queste sua qualità spingendosi ancora oltre rispetto a quanto fatto con The Social Network: non solo mette al centro un unico grande protagonista e letteralmente lo circonda di persone che gli ruotano attorno desiderose di parlargli, di relazionarsi con lui anche in maniera conflittuale; ma, concentrandosi solo su momenti chiave della sua vita e della sua carriera, riesce ad allontanarsi quanto più possibile dalla realtà (un elemento che a Sorkin, tranne una breve parentesi in The Newsroom, non ha mai veramente interessato) e abbracciarne così la versione romanzata, romantica, idealista e, se vogliamo, anche un po' ingenua. Quello che in pratica lo sceneggiatore premio Oscar sceglie di fare è selezionare alcuni aspetti reali e farli propri nel vero senso della parola, ovvero inserendoli nelle più tipiche delle situazioni sorkiniane - i classici caotici e vitali 30 minuti prima di un qualsiasi evento importante - per portare così avanti non tanto la storia di Jobs, ma la sua personalissima visione del mondo, del genio e dell'arte. Il risultato è assolutamente straordinario benché molto esposto agli attacchi; ma d'altronde, fin dalla primissima scena, si è talmente coinvolti e risucchiati in questo vortice contraddittorio fatto di cattiverie e buoni sentimenti, vendette e riconciliazioni, litigi furiosi e happy ending, che diventa impossibile curarsi della veridicità degli avvenimenti o se il ritratto nel suo complesso sia più buonista che critico. Come per tutte le straordinarie opere precedenti di Sorkin, quello che conta è il fatto che da quei personaggi, così larger than life, cosi poco plausibili, non vorremmo separarci mai. Nel mezzo di questa, più che dovuta, sviolinata ad Aaron Sorkin, non bisogna però perdere di vista gli altri grandi talenti che contribuiscono in maniera decisiva a questa sinfonia, come il direttore d'orchestra che, mai come questa volta, sembra tenersi da parte per lasciare che siano soprattutto gli altri talenti a brillare. Per chi conosce il cinema di Danny Boyle sarebbe già questa una (buona) notizia, ma l'aspetto più eclatante è che così facendo il regista britannico firma forse quella che è la sua opera migliore e più misurata, senza però perdere nulla di quella forza visiva e dirompente che caratterizza il suo cinema. Boyle fa suo lo stile walk and talk tipico dei lavoro di Sorkin (anche se qui, viste anche le location, più che West Wing o Sports Night viene più da pensare ai piani sequenza di Birdman), ma al tempo stesso non rinuncia al montaggio, ma anzi fa in modo che proprio le sequenze che utilizzano brevi flashback - come quella strepitosa, a montaggio alternato, del doppio litigio al centro del film - non risultino mai forzate, ma perfettamente integrate in una struttura apparentemente poco cinematografica. La stessa scelta, d'altronde, di utilizzare tre diversi formati (16 mm, 35 mm e digitale) per le tre diverse linee temporali è sì una grande trovata, ma non fine a stessa, poiché riesce a rappresentare al meglio l'evoluzione tecnologica che il film mette in scena. Per ultimi lasciamo gli attori, destinatari dell'ottimo lavoro di partenza di Boyle e Sorkin, che con una manciata di incredibili interpretazioni rendono indimenticabile questo Steve Jobs. Perché se è vero che sui titoli di coda permane la consapevolezza che il film sia soprattutto figlio di uno script più unico che raro, è anche vero che si rimane ammirati nel leggere i nomi degli attori e nel rendersi conto che è davvero difficile trovarne uno che sia stato meno che eccellente. Ovviamente su tutti svetta, fosse anche solo per questione di minutaggio, Michael Fassbender, talento cristallino del cinema europeo che non aveva certo bisogno di conferme, ma che qui, con un ruolo così difficile ed iconico, si lascia alle spalle tutti i dubbi della vigilia (sulla somiglianza fisica, sulle "preferenze" della Sony prima per Christian Bale e poi per Leonardo DiCaprio) e tira fuori un'interpretazione potentissima che cresce sempre di più con il passare dei minuti. E poi una Kate Winslet che torna finalmente ad un ruolo degno della sua immensa carriera, un Seth Rogen sempre più a suo agio nei ruoli drammatici, un Jeff Daniels ormai sorkiniano doc e particolarmente vicino al meraviglioso Will McAvoy di The Newsroom, ed in più Katherine Waterston e Michael Stuhlbarg come supporter di lusso. Se insomma alla domanda se sia santo o tiranno ancora non siamo in grado di rispondere - e a dirla tutta nemmeno siamo troppo interessati - di una cosa siamo invece certi: quello di Steve Jobs è certamente un mito destinato a rimanere immortale. E non tanto per i prodotti che ha messo sul mercato e o per i suoi aforismi, ma perché, proprio come lo Zuckerberg fincheriano di The Social Network, è il simbolo perfetto del cinema dei nostri tempi, autoriale e popolare al tempo stesso.
Luca Liguori (Movieplayer.it)
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