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ALLA RICERCA DI VIVIAN MAIER
Documentario
di John Maloof, Charlie Siskel
con John Maloof, Mary Ellen Mark, Phil Donahue, Vivian Maier
84 minuti - USA 2013

La scoperta postuma di un'artista: questo è ciò che racconta, in estrema sintesi, Alla ricerca di Vivian Maier, documentario già presentato ai festival di Toronto e Berlino, e ora distribuito in sala da Feltrinelli Real Cinema. Un'artista di non poco conto, considerato che la Vivian Maier del titolo, scomparsa nel 2009, è attualmente considerata tra i più importanti esponenti della fotografia del XX secolo. I suoi lavori, che compongono un'imponente collezione di pezzi di "street photography" (oltre 100.000 scatti) sono stati esposti in prestigiose mostre americane ed europee, e hanno ottenuto riconoscimenti critici ovunque. Eppure, la Maier è rimasta nella totale oscurità per tutta sua la vita, lavorando come bambinaia in varie città degli States; e nel frattempo facendo i suoi scatti, pezzi di vita cittadina "rubati" alla quotidianità, e resi unici dall'occhio del suo obiettivo. La Rolleiflex della Maier non ha catturato solo frammenti di vita americana, ma si è spinta anche oltre: tra il 1959 e il 1960, in particolare, la donna ha viaggiato a Manila, Bangkok, in Cina, Egitto, Italia e Sudamerica. Sempre facendo scatti, sempre catturando e trasfigurando i suoi frammenti di quotidianità. L'oscurità, tuttavia, ha sempre avvolto non solo il lavoro di questa donna, venuto infine alla luce grazie all'opera di riscoperta e archiviazione qui documentata, ma anche la sua vita personale, i cui dettagli restano scarsi e contraddittori. La vita, e l'approccio al lavoro di quest'artista così fuori dagli schemi, restano per moltissimi versi un enigma. Enigma che il documentario di John Maloof e Charlie Siskel si incarica di cercare di sciogliere. Se la Maier è ricordata, attualmente, come un'importante fotografa, va sottolineato che lei si considerò, per tutta la sua vita, semplicemente una bambinaia. Il film inizia raccontando il modo in cui Maloof, fotografo, filmaker e storico, incappò nel lavoro della donna nel 2007: semplicemente per caso, facendo ricerche per un suo libro sul quartiere di Chicago, e acquistando alcuni dei suoi negativi ad un'asta. Quei negativi non furono poi usati per il libro, ma diedero in seguito avvio a una ricerca a più ampio raggio: colpito dalla qualità degli scatti, e intrigato dalla figura di questa "tata" che si dedicava alla fotografia, Maloof iniziò a indagare sulla sua persona. Quando lo storico inizia la sua ricerca, è il 2009 e Vivian Maier si è spenta da poco: "serenamente", annunciano i necrologi. Più tardi, scopriremo che non era andata esattamente così. Il lavoro compiuto da Maloof è comunque imponente, e il film ce lo mostra nella sua crescente intensità: l'uomo accumula fotografie, negativi, materiale scritto e filmato, testimonianze di persone che hanno conosciuto Vivian Maier e per le quali questa ha lavorato. La ricerca coinvolge lo storico sempre più a fondo, arrivando a un passo dalla compulsione: le testimonianze sembrano complicare il quadro anziché scioglierne il mistero. La Maier appare come persona solitaria, riservata, senza legami né parenti in vita conosciuti. Se ne ignora, inizialmente, persino la provenienza. Ciò che emerge dalle testimonianze, soprattutto, è una sua singolare modalità di rapporto con la moltitudine: il suo stare a suo agio a contatto con essa, ma tenendosene sempre un passo indietro. Senza intrattenere legami. Forse, la condizione necessaria per un lavoro come il suo. Probabilmente, uno dei motivi che lo hanno reso così unico. L'indagine di Maloof è narrata quasi come un giallo, in cui lo storico ricostruisce come un puzzle, un pezzo alla volta, la figura di un'artista e di una donna assolutamente fuori dagli schemi. Le interviste ai datori di lavoro della Maier, e agli ex bambini di cui si era occupata (tra i primi, lo scrittore e produttore Phil Donahue) si alternano a filmati d'epoca, oltre ovviamente a un gran numero degli scatti della stessa donna, a documentare circa un trentennio di vita americana (e non solo). Il ritratto che ne viene fuori è inizialmente solo quello di una donna riservata, senza legami, che non si poneva il problema della visibilità del suo lavoro (considerato alla stregua di un hobby). Gli stessi ex bambini rivelano di essere stati intrigati, e incuriositi, da questa misteriosa tata, con la macchina fotografica perennemente a tracolla. Tuttavia, gradualmente, un altro lato di Vivian Maier inizia ad emergere: un lato molto meno piacevole, che ne svela la sociopatia. Vengono descritti atteggiamenti ossessivi, aggressivi, addirittura violenti. Una donna che, da bambina, era stata affidata alle sue cure, rivela di aver subito maltrattamenti, parla esplicitamente di gravi percosse. L'isolamento in cui la bambinaia/fotografa si rinchiudeva è descritto come fonte di comportamenti aggressivi verso chi osava violarlo. La sua ossessione per il collezionismo (di oggetti di ogni genere, e di ritagli di giornale) diviene motivo di imbarazzo per una delle famiglie che la ospita; si racconta di come la Maier abbia aggredito uno dei vicini, a cui erano stati ceduti alcuni fogli dei suoi giornali. Il documentario non ha paura di andare a fondo in questo aspetto: specie nella seconda parte, viene descritta la crescente discesa della donna in atteggiamenti maniacali, che la isolano sempre più dal mondo. Ciò rappresenta probabilmente lo scotto da pagare (o meglio: lo scotto che Vivian Maier, in particolare, ha pagato) a una personalità artistica così sui generis, e forse anche alla sua stessa genialità. Il quadro della vita di questa donna (di cui, finita la visione del film, sappiamo un po' più di prima, ma solo un po') si complica ulteriormente quando scopriamo che un tentativo (fallito) di pubblicare i suoi lavori, la Maier lo aveva in realtà fatto. Maloof lo apprende durante un viaggio in quello che si scopre essere il villaggio di origine della sua famiglia, Saint-Bonnet-en-Champsaur, sito sulle Alpi francesi. Vivian Maier era consapevole della validità del suo lavoro, lo considerava molto buono, e ha effettivamente tentato (non sappiamo con quanta convinzione) di renderlo pubblico. Proprio il mancato approfondimento di questo aspetto, forse, è l'unico vero limite di questo documentario, un limite comune alla ricerca che lo ha ispirato; questo tentativo di pubblicazione fallito passa quasi come un elemento secondario, subito abbandonato, e non intacca la considerazione finale (opinabile, a questo punto) secondo la quale Vivian Maier non sarebbe stata probabilmente felice della ricerca e della riscoperta compiute da Maloof. Il ragionamento sull'arte e sui suoi fruitori, e su quanto un prodotto artistico necessiti di un ricevente per sostanziarsi e completarsi, resta solo sullo sfondo: e anche questo è un peccato, visto l'innegabile potenziale del tema. Resta comunque, quello di Maloof e Siskel (quest'ultimo, già produttore di Bowling a Columbine di Michael Moore) un prodotto assolutamente apprezzabile; sia per il suo valore divulgativo, sia per il rifiuto dell'agiografia, con la già ricordata scelta di raccontare anche i lati più oscuri della persona oggetto di indagine. In quest'ultima, da par suo, resta quel fondo di impenetrabilità che la ricerca qui narrata non ha scalfito: evidenziato non solo dalla perdurante scarsità di notizie sulla sua vita, ma anche dal suo stesso sguardo, ritratto in tante foto d'epoca. Sguardo che esprime quello scarto, quel "di più", solo intuibile ma non comprensibile né tanto meno definibile, che contribuisce in modo decisivo al fascino del personaggio.
Marco Minniti (Movieplayer.it)
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