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IL TEMPO CHE CI RIMANE
Drammatico
di Elia Suleiman
con Elia Suleiman, Saleh Bakri, Samar Qudha Tanus, Shafika Bajjali
105 minuti - Francia, Palestina 2009

Solo i popoli oppressi dedicano film alla memoria dei padri. Solo il palestinese Elia Suleiman lo fa con tanta poetica eleganza, sposando l'impassibilità di Buster Keaton alle gag a miccia lenta di Tati con uno humour, uno stupore, un distacco che coprono le ferite più brucianti. "Intervento divino" (2002) allineava piccole catastrofi quotidiane fra Nazareth e Ramallah, tingendo d'assurdo la vita di tutti i giorni in un paese occupato. "Il tempo che ci rimane" comprime sessant'anni di Storia in una serie di interni domestici. Ripercorrendo le tappe decisive delle vicende di tutto un popolo sul filo di una memoria apertamente autobiografica. L'autobiografia di un regista-attore nato e cresciuto a Nazareth, fra «quei Palestinesi che decisero di restare e che furono etichettati come "Arabi israeliani", vivendo da stranieri in patria». Si comincia nel 1948, con la resa di Nazareth, espugnata da soldati israeliani camuffati da palestinesi. Si finisce ai giorni nostri, con un palestinese che esce a buttare la spazzatura seguito passo passo dalla canna del carrarmato che staziona sotto casa sua (gag terrificante e indimenticabile, in Suleiman il terrore confina sempre col comico). In mezzo scorrono gli anni 60 e 70; il piccolo Elie, sempre sgridato dal preside perché parla di "americani imperialisti", cresce fino a prendere il volto di Suleiman; il padre ex-combattente (Saleh Bakri, bello come il giovane Delon) metabolizza la sconfitta, sopporta le farneticazioni del vicino, non rinuncia ai suoi piccoli piaceri (anche se a forza di andare a pesca di notte viene accusato di traffico d'armi). E intanto Suleiman accumula scenette bizzarre esprimendo un affetto struggente per quegli interni e quei personaggi così familiari. Una proiezione scolastica di Spartacus (censurata dalla prof quando Kirk Douglas passa dalla lotta anticolonialista a baci non proprio casti); il lento e paziente saccheggio di una casa palestinese visto da lontano, con atroce ironia; il coro femminile di una scuola per arabi israeliani che vince un concorso cantando inni in gloria della loro nuova "patria". Tutto composto in sapienti inquadrature fisse, senza mai calcare la mano, con una discrezione che è l'altra faccia dell'ostinazione. E lascia allo spettatore il compito e il piacere di riempire i vuoti lasciati dall'autore. Perché come ha detto qualcuno, l'umorismo è la cortesia della disperazione.
Fabio Ferzetti (Il Messaggero)
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