Drammatico di Philippe Aractingi con Nada Abou Farhat, Rawya El Chab, Georges Khabbaz 98 minuti - Francia, Gran Bretagna, Libano, Belgio 2007
«Non abbiamo il diritto di vivere» dice a un certo momento la protagonista del film. E nel tono c' è più rassegnazione che rabbia. O meglio: una rabbia che è diventata rassegnazione per le tante volte che quell' idea è tornata in mente a Zeina e alla persone come lei, quelle che il destino ha fatto nascere in una zona della terra devastata da sempre dalla guerra. Sotto le bombe, presentato con successo alle Giornate degli Autori di Venezia 2007 e poi al Sundance Festival, è il «diario» di questo stato d' animo, la registrazione fatta con la macchina da presa di un calvario che sembra non finire mai e che costringe le persone a fare i conti con quello che di peggio si portano dentro: la paura, l' odio, la disperazione. È ambientato nel Libano del Sud, durante la guerra dei «33 giorni», a cavallo tra luglio e agosto 2006, perché il regista Philippe Aractingi è nato lì, a Beirut, nel 1964, ma avrebbe potuto svolgersi ovunque, in una delle tante aree dove i giorni di guerra superano quelli di pace. L' idea di girare un film proprio «sotto le bombe» gli è venuta mentre stava a Parigi, nel luglio 2006, quando Israele ha deciso di bombardare il Libano per reagire al rapimento di due suoi soldati da parte di Hezbollah. «Quando scoppia una guerra la tua vita cambia in modo radicale, - ha dichiarato il regista a Maria Grosso sul Manifesto - improvvisamente non hai più una casa, non puoi più andare al lavoro e ti accorgi che i tuoi programmi non hanno più senso. Allora la rabbia si impossessa di te e cominci a sentire che odi quanto ti sta succedendo. Tutto questo però rischia di distruggerti e così senti che è necessario fare qualcosa per difenderti dal rancore e dall' inerzia. Senza più aspettare, immediatamente. È nata così, dentro di me, l' insopportabile urgenza di fare il film in quel momento, perché era quello l' istante in cui la guerra stava accadendo». E così, recuperando un' idea su cui stava lavorando da tempo (fare un film i cui protagonisti si muovessero in uno scenario tragico e reale), Aractingi è partito per il Libano per filmare il suo Paese «sotto le bombe». Poi, appena finiti i giorni dei bombardamenti ma con città e strade ancora devastate dalla guerra, ha girato le scene con due attori professionisti (mentre tutti i comprimari erano presi dalla strada), cercando l' equilibrio tra le due parti in sede di montaggio. La storia racconta il viaggio da Beirut verso il Sud del Libano di una donna sciita, Zeina (Nada Abou Farhat), e del tassista cristiano Tony (Georges Khabbaz) che ha accettato di accompagnarla, alla ricerca del figlio di sei anni mandato a vivere solo qualche settimana prima della guerra dalla zia. Emigrata a Dubai, Zeina pensava così di risparmiare al figlio i traumi della separazione che si stava consumando tra i genitori, ma non aveva fatto i conti con le tensioni che agitano quella terra. Per questo sbarca in Libano, con l' angoscia di chi non ha più notizie da dieci giorni della sorella e del figlio. All' inizio il rapporto tra l' uomo e la donna è duro e sospettoso: lui pensa solo al guadagno, lei ha paura di essere abbandonata o imbrogliata. Ma di pari passo con la scoperta di un Paese martoriato e sanguinante, dove i corpi spariti sotto le macerie fanno il paio con le «sparizioni» di tratti di strada cancellati dalle bombe, i rapporti tra i due si stemperano e i dolori che ognuno si porta dentro (anche Tony non vede da tempo i figli, emigrati in Israele con la madre) finiscono per accomunarli in un unico percorso di sofferenza. Perché è tutta una nazione che ha perso qualche cosa, che non trova più qualcuno, che è costretta a fare i conti con la paura e la disperazione. Aractingi gira il suo film con l' intensità del regista cinematografico e la determinazione del documentarista, attento a non prevaricare mai uno sull' altro. Concede poche scene melodrammatiche ai suoi due attori (concentrate nella notte che passano in un hotel) ma usa l' intensità della loro recitazione per favorire l' identificazione con lo spettatore e sottolineare il dramma personale che ognuno dei due si porta dentro. E intanto usa l' occhio del documentario per non perdere mai di vista il quadro d' insieme, per raccontare la Storia e la Cronaca, senza voler dividere i libanesi in buoni e cattivi (c' è chi, evidentemente vicina all' islamismo più radicale, considera «martiri» i corpi sotto le macerie e chi, all' opposto, vede in Israele l' unica soluzione ai propri problemi) ma preoccupato soprattutto di restituire a chi guarda la dolorosa complessità di una tale tragedia. E il fatto che nel film non si vedano mai cadaveri o scene cruente anche se si parla continuamente di morte, la dice lunga sulla moralità di un regista che non vuole sfruttare il dolore dei suoi connazionali per fare «spettacolo» ma si preoccupa in ogni scena di mettere davanti agli occhi degli spettatori cosa voglia dire davvero essere costretti a vivere continuamente «sotto le bombe».
Paolo Mereghetti (Corriere della Sera)
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