Drammatico di Marco Tullio Giordana con Monica Bellucci, Alessio Boni, Maurizio Donadoni, Luca Zingaretti 150 minuti - Italia 2008
Finalmente. Era ora di frugare nella piaga della caduta del fascismo con tutto il suo corteo di fantasmi. Era tempo di raccontare la parabola maledetta di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti senza temere manipolazioni da destra né anatemi da sinistra. Ed è bene che a farlo sia un uomo non certo sospetto di revisionismo come Marco Tullio Giordana. Certi personaggi infatti sono così significativi che se non fossero veri andrebbero inventati. O almeno "completati", anche usando l'immaginazione.
Come fa Giordana in Sanguepazzo rievocando con molte licenze la fine di questi due divi di regime, fucilati dai partigiani nell'aprile 1945. Non per riscrivere la Storia, ma per illuminarne le zone d'ombra con un'ipotetica "controstoria". Un po' come fece Bellocchio per Moro, anche se qui domina quel gusto alla Bertolucci per il mélo che univa Giorddana al compianto Enzo Ungari. Unito a un gioco cinèfilo che incrocia dati e profili facendo comunque tornare i conti. Così il Valenti narciso di Zingaretti, straordinario, diventa un "arciitaliano" spericolato e vitalista che flirta con il potere ma bada ai propri interessi; un avventuriero che ama il gioco, le donne, la coca, forte di un'intelligenza smagata forse estranea all'originale (Giordana gli mette in bocca le parole di Flaiano sugli italiani che "corrono in soccorso del vincitore"). E soprattutto un uomo di spettacolo, che sa di vivere nel paese e nell'epoca sbagliata ma è attento a ciò che lo circonda. Tanto da riprendere con la sua cinepresa, nelle acque di Venezia, il cadavere col cartello "partigiano" al collo che appare in Paisà di Rossellini.
È una delle massime licenze del film, nonché la chiave del metodo di Giordana. Che mescola fatti e fiction, cinegiornali e scene madri, tenendo in vista i due nodi essenziali: la "tipicità" dei due antieroi; e la frattura fra ragioni politiche e ragioni individuali. Fucilarli in quanto simboli di regime forse non fu giusto, ma era inevitabile. Anche l'amicizia-rivalità tra Valenti e l'immaginario Golfiero (Boni), regista nobile e di sinistra "alla Visconti", va vista in questo quadro. Certo, distinguere tra fatti e invenzione aiuta a godere, e capire, fino in fondo. Qualche insistenza rivela l'origine televisiva. Ma bastano i molti tabù che affronta, la reticenza di tanta nostra cultura anche di sinistra, il progressivo scadere del "dibattito" in corso sulla nostra memoria, a dire l'importanza e l'originalità di Sanguepazzo.
Fabio Ferzetti (Il Messaggero)
|