Drammatico di Matteo Garrone con Gianfelice Imparato, Toni Servillo, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo 135 minuti - Italia 2008
Un film che si farà ricordare, questo che è il sesto di Matteo Garrone, autore partito in sordina con i suoi primi tre film schivi e appartati (come è lui, in persona) ma già portatori di un punto di vista originale, e poi decisamente decollato con gli altri due "L'imbalsamatore" e "Primo amore". Un film, Gomorra, che sarà difficile dimenticare e che non può lasciare indifferenti, proprio come il libro dal quale è tratto, il docu-romanzo di Roberto Saviano.
Dalla sterminata materia che percorre il libro secondo un ordine non narrativo e non lineare, il regista (quarantenne romano, mentre Saviano è napoletano e molto meno che trentenne al momento della pubblicazione) ha tirato fuori solo alcuni suggerimenti e segmenti.
Il film è fatto di cinque nuclei o storie, sebbene l'adattamento allo schermo - ben deciso e definito nel suo dare luce, voce, faccia, suono, ambientazione e ritmo a ciò che era stato reso dalle parole scritte - assecondi lo stesso metodo casuale, di sviluppo non lineare, senza inizio e senza fine. Solo una geometrica corrispondenza: i 135 minuti di film si aprono e si chiudono su una sparatoria, anzi su un'esecuzione, con le stesse modalità di banale ferocia, di ordinaria efferatezza.
Tra le storie spiccano, anche per efficacia degli interpreti, quella di don Ciro (Gianfelice Imparato) e quella di Pasquale (Salvatore Cantalupo). Don Ciro è colui che, nell'articolata catena di competenze e gerarchie, ha l'incarico di fare pazientemente il giro delle famiglie degli affiliati al clan che sono finiti in galera per recapitare loro la mesata; e fa di tutto per vivere e comportarsi come un grigio e metodico contabile diligente e distaccato.
Pasquale è un sarto di qualità, anello fondamentale della catena che lega l'alta moda al lavoro nero tramite le cosche; e non per ribellione ma solo perché lusingato dalla richiesta cede alle insistenze della concorrenza cinese che lo reclama come istruttore del suo esercito di lavoranti clandestini. Ma tutto si paga, tutto, in questo universo dove conta solo schierarsi e l'alternativa è secca tra dominare e subìre, impone una scelta.
Le altre storie non sono meno pazzesche e penetranti. A partire da quella, anche la sola che contenga una minima e fievole luce di alternativa, dove il giovane laureato Roberto capisce per che cosa e per chi sta lavorando - Franco (Toni Servillo), impeccabile completo di lino e auto di classe, manageriale trafficante di rifiuti tossici - e scende dal carro.
Narrazione impassibile, osservazione da entomologo, esplosioni di orrore e di follia mischiate alla quotidianità perché sono la quotidianità di un "sistema" di cui vive (e muore) non solo una circoscritta banda di delinquenti ma una vasta comunità, con ramificazioni che arrivano dappertutto. Lecito naturalmente appellarsi o appigliarsi a tutti i riferimenti di rito, dai modelli coppoliano o scorsesiano a quello del nostro grande Rosi. Ma è tanto vero che Garrone esprime un punto di vista e uno sguardo che il suo cinema e il suo film non somigliano a niente.
Paolo D'Agostini (La Repubblica)
Benvenuti in Campania, terra di bufale e kalashnikov, acquitrini e clan criminali, sarti geniali e rifiuti tossici. Benvenuti nella regione che meglio riassume il resto d'Italia e forse del mondo con il suo miscuglio di talento e delinquenza, legale e sommerso, ragione e follia. Benvenuti nel film che dopo tanti tentativi imperfetti o prematuri dà volto, voce, forma, colore a questo magma che chiamiamo che chiamavamo camorra.
Come si capisce se un bel film italiano è un grande film in assoluto? C'è un test infallibile. Basta chiedersi se lo consiglieremmo a un amico straniero. Gomorra passa a pieni voti per varie ragioni. Perché mostra un mondo mai visto con tanta forza e coerenza. Perché a forza di cesellare immagini e parole rende incredibilmente vero quel mondo incredibile, cancellando ogni traccia di messa in scena. E perché ci fa capire quanto quel mondo sia vicino, anzi consustanziale al nostro, anche se non lo vogliamo vedere.
Altro che sei gradi di separazione: fra il professionista elegante che tratta rifiuti tossici con le industrie del Nord, interrandoli in Campania o spedendoli in Africa come "aiuti umanitari", e il ragioniere del crimine che si trova una pistola in bocca senza quasi capire perché, c'è solo un passo anche se nel film i due personaggi, i fenomenali Toni Servillo e Gianfelice Imparato, non si incrociano mai. A differenza di tanti brutti film, infatti, Gomorra non spiega nulla ma ci fa capire tutto. È il segno più certo della sua grandezza. Anziché disperdere energie collegando fatti e destini, Garrone va dritto all'essenziale. Rielabora con fantasia e libertà cinque storie tratte dal romanzo-reportage di Saviano, ma non cerca nessi a tutti i costi. Tanto ogni personaggio si porta la sua verità scritta addosso; ogni scena è una resa dei conti, reale o figurata; ogni episodio approda a uno squarcio più eloquente di mille parole. Per questo le immagini di Gomorra, belle perché vere, e viceversa, sono così emblematiche e insieme naturali. Come i corpi e i volti scelti da Garrone dopo un lavoro di inchiesta che si indovina lungo e accurato.
E pensiamo ai due ragazzi "scoppiati" che credono di potersi mettere in proprio e rubano le armi ai clan. A quel sartino che rincasa all'alba, esausto ma felice, coricandosi accanto alla moglie e al figlioletto, un'immagine bella come una Pietà del Rinascimento. A quel tessuto di affetti, esperienze, mentalità, che lega fra loro i personaggi e rende tutto così normale e insieme straziante. O a quei dettagli geniali (l'imprenditore del Nord che chiede «è tutto clean?»; il piccolo aspirante camorrista che si depila le sopracciglia; il sarto che parla coi cinesi facendo capolino da una specie di botola nel bagagliaio dell'auto) che valgono un romanzo. Un romanzo diventato uno dei pochi grandi film italiani del decennio. Da non perdere.
Fabio Ferzetti (Il Messaggero)
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