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LETTERE DA IWO JIMA
Drammatico
di Clint Eastwood
con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara
140 minuti - USA 2006

Un piccolo punto grigiastro: così, perso sullo sfondo della battaglia di Iwo Jima, Clint Eastwood e lo sceneggiatore Paul Haggis mostrano la bandiera che i marine alzarono più di 60 anni fa. Di quella bandiera, e delle morti che nutrirono il suo mito, il regista ormai settantaseienne ha raccontato in Flags of our Fathers (2006). A quei fatti, ma non più a quel mito, torna ora con Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo lima, Usa, 2006, 140'). Ed è come se la sua macchina da presa compisse un controcampo del senso, tanto coraggioso quanto morale. Una sorta di controcampo è già l'immagine di quel puntino grigiastro. Fotografata da Joe Rosenthal, la bandiera piantata dai marine il 23 febbraio 1945 diventa subito negli Usa il simbolo d'un nuovo entusiasmo e d'un nuovo sostegno alla guerra. Però, vista con gli occhi degli altri, dei giapponesi che si oppongo allo sbarco di 100mila americani, non è che un frammento anonimo nella totalità della catastrofe. Infatti la regia la mostra quasi per caso, dall'interno d'una grotta, tanto lontana da perdersi nell'indifferenza. In quel buco,e nei molti altri fatti scavare nella roccia dal generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe), più di 20mila uomini attendono di morire. E questo il cuore di Lettere da lwo lima, questo trionfo della morte. Anche Flags of our Fathers ne è colmo, ma con un diverso accento. In quel film si tratta in primo luogo dell'opposizione fra le vite dei singoli e la macchina della guerra: in nome di questa, e nella speranza della vittoria, quelle vengono sacrificate e addirittura dimenticate. Quindi si tratta della certezza che nessuna speranza di vittoria riesce a contraddire, e neppure più a nascondere. Se nel campo americano la morte dei singoli ha una sua orribile, nefasta “utilità” collettiva, nel controcampo giapponese non ne ha alcuna. Per gran parte, Lettere da lwo Jima è girato nel buio di questa morte attesa (e in quel buio i suoi colori perdono cromatismo, quasi riducendosi a sfumature di grigio, a parte il rosso del sangue). Già sottoterra, chiusi dentro i loro buchi, la maggioranza dei soldati e degli ufficiali neppure immagina d'aver diritto alla vita. Eastwood li osserva con pietà in questa rinuncia interiore, in questa morte prima della morte. Non conta chi siano stati, 60 e più anni fa. Conta il nostro sguardo su di loro, e insieme conta lo sguardo del cinema che oggi li riporta “alla luce”, ancora vivi per il tempo breve di un film. D'altra parte, non tutti a Iwo Jima attendono la morte allo stesso modo. Molti non hanno occhi per se stessi, per le ragioni della propria fragile singolarità, ma solo per la patria e per la sua pretesa d'assoluto. E a quell'assoluto affidano la propria coscienza, prima ancora che la propria vita. Muoiono da eroi, o così immaginano. Ma prima costringono altri a imitarli. Sono certi che niente valga di per sé, se non in vista di quel principio assoluto, e che solo la morte dia la misura del suo valore. Altri, pochi, non si lasciano vincere dalla prepotenza cieca di questa ideologia funesta. Per loro è la coscienza del singolo ma non c'è coscienza che non sia del singolo – il luogo dove vivono la moralità. «Fai quello che ti sembra giusto, perché è giusto», un soldato scrive alla madre, appunto. E intende che il giusto è tale in quanto “sembri”, cioè in quanto sia il risultato di una domanda interiore, di una interrogazione di sé, e non di una subordinazione a un principio esterno e totale. Viene dall'America, quella lettera. La trova il barone Nisbi (Tsuyoshi Ihara) addosso a un marine morto. Quando la legge ai suoi uomini, a tutti pare che quell'esortazione sia per loro, come se quella madre avesse scritto a ognuno di loro. E questo un ulteriore controcampo di Lettere da Iwo lima, ancor più coraggioso di quello della bandiera. Il suo capovolgimento non riguarda eserciti in guerra e nemmeno civiltà che si “scontrano”. Più semplicemente, e più radicalmente, riguarda gli occhi di quei soldati, cioè la loro prospettiva morale e la loro libertà interiore. E certo riguarda allo stesso modo la dignità e la libertà interiore dei loro “nemici”. Quanto a Clint Eastwood, sempre più grande sempre più classico sono suoi gli occhi che vedono le ragioni di questo controcampo, e che ce le mostrano. Ci riescono nonostante il buio in cui siamo tentati di chiuderci, oggi come più di 60 anni fa.
Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
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