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GRINDHOUSE - A prova di morte
Fantastico - V.M. 14 anni
di Quentin Tarantino
con Rosario Dawson, Jordan Ladd, Rose McGowan, Kurt Russell, Quentin Tarantino
110 minuti - USA 2007

In Grindhouse - A prova di morte il talento di Tarantino si manifesta a sprazzi, compulsivo e radicale come sempre, ma purtroppo disciolto in un flusso di sequenze verbose, noiose e spesso riprese a macchina fissa. Proprio il ritmo, l'arma migliore dell'autore più anti-classico di Hollywood, batte la fiacca dando la sensazione che il soggetto avrebbe reso meglio nell'originaria versione del film (che consisteva nell'abbinamento di due distinti episodi firmati da Quentin e da Rodriguez). Per riprodurre alla lettera l'impianto della produzione cosiddetta «exploitation» degli anni Sessanta e Settanta, destinata alle sale dei quartieri periferici aperte 24 ore su 24 e frequentate da una pittoresca fauna di emarginati, il Forrest Gump del cinema riesuma l'abbigliamento d'epoca, seleziona bar, negozi e ristoranti vintage, ricrea le luci sporche e alonate tipiche di cult-movies "bassi" come Punto zero, Zozza Mary, pazzo Gary o Fuori in 60 secondi, traffica con la pellicola che sul più bello (attenzione: stavolta non è colpa dell'operatore) si sgrana, si sfilaccia o addirittura si spezza, raccatta tutte le colonne sonore dei film di serie B e C internazionali (tra cui quelle composte da Morricone, Donaggio e Cipriani per i poliziotteschi e gli spaghetti western) e soprattutto arruola una pattuglia di bellissime ragazze con i piedi nudi e le unghie laccate sempre bene in vista. Dunque la bella notizia è che nel nuovo "falso d'autore" i fatidici feticismi restano intatti. Roba (per una quota di pubblico) da perderci la testa: dalla pantera Rosario Dawson alla gazzella Vanessa Ferlito esecutrice di una lap dance da infarto, dalla burrosa Rose McGowan all'atletica Zoe Bell, dalla sboccata Tracie Thoms alla sinuosa Sydney Poitier (si chiama come il celebre papà, ma è una superfemmina)... Le ragazzacce in succinti short e magliette però parlano troppo e per di più in uno slang intraducibile, fino a quando non s'imbattono nello sfregiato Mike lo Stuntman (Kurt Russell) che le perseguita e le massacra con la sua automobile killer. Non c'entra niente l'assenza - come è stato scritto a Cannes - di una «visione critica». Tanto è vero che l'ingrediente delle sfide stradali - tra inseguimenti, sgommate, tamponamenti e carambole - è quello più ludico e semplicistico, ma anche il più riuscito e coerente: il valore perduto del cinema popolare da terza o quarta visione si prende, così, la rivincita sul bizantinismo di analogie, scomposizioni e ricalchi che rischiano di fare assomigliare l'autore a un docente di semiologia.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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