Drammatico di Clint Eastwood con Adam Beach, Jamie Bell, Jesse Bradford, Neal McDonough, Paul Walker, Ryan Phillippe 130 minuti - USA 2006
Una flotta sterminata riempie lo schermo di Flags of our Fathers (Usa, 2006, 132'): così la macchina da presa mostra, in campo lunghissimo, la potenza della marina degli Usa, in rotta verso Iwo Jima. Sulle navi, fieri di quella potenza che tutti li avvolge e li tiene, i marine esultano. Ai loro occhi la guerra è questo procedere insieme, verso una meta totale piena di senso e di valore. Veloci, stormi di bombardieri passano sopra le navi. Nel loro ruggito c'è il segno della forza e della gloria che, così si immagina, presto sarà di tutti. All'improvviso, un marine precipita dagli spalti. Dapprima la macchina da presa gli sta addosso, come gli sguardi dei suoi compagni Tra di loro, e forse anche in platea, nessuno immagina quel che accadrà. Per quanto la sua vita sia solo un dettaglio sullo sfondo dell'oceano, certo su una di quelle grandi navi qualcuno darà un ordine. Certo, ancora, verrà lanciata una cima o sarà calata una barca. E però, senza scampo, il dettaglio si allontana e svanisce, singolarità insignificante nel senso totale della scena. Di questo racconta il film scritto da Paul Haggis e William Broyles, a partire da un libro di James Bradley e Ron Powers: del tragico perdersi dei singoli nella totalità della guerra. Come Steven Spielberg in Salvate il soldato Ryan, Clint Eastwood porta il suo e il nostro sguardo sull'altro lato della guerra, appunto, e del racconto che usiamo farcene. Questo lato era reso evidente nella prima, grande sequenza del film de1 1998. Sbarcando sulle coste della Normandia, i soldati non trovavano né gloria né senso. Al contrario, erano inghiottiti in un oceano d'orrore. E anche il cinema smarriva coerenza e narratività nell'insignificanza dei corpi straziati. Come Spielberg, anzi meglio di lui, Eastwood "racconta" lo sbarco su Iwo Jima, nel febbraio 1945. Alle spalle dei marine c'è la potenza della macchina di guerra, coerente e tesa verso la propria meta. Più d'una volta l'occhio del cinema s'allontana dalla spiaggia e mostra la totalità della scena. E però, in un radicale controcampo del senso, mostra poi i dettagli incoerenti dell'orrore, ben addosso agli uomini che muoiono. Incalzati dal montaggio, persi nel vuoto di immagini che non si "legano" fra loro, ma che fra loro si urtano come urla di terrore, difficilmente corriamo il rischio di restituire senso a quell'accumularsi di morte. Non c'è tentazione epica, non c'è possibilità eroica, su quella spiaggia. Moltiplicato per tante volte quanti sono quei "dettagli" che muoiono, c'è invece lo stesso sgomento sofferto per il marine che nessuna nave s'è fermata a raccogliere.
D'altra parte, come si dice all'inizio di Flags of our Fathers, sulla complessità, sulla contraddittorietà, sull'insensatezza degli accadimenti umani succede che si stendano poi coerenza e semplificazione. E allora è come se i dettagli - la loro sofferenza, la loro morte, e anche la loro grandezza - fossero di nuovo riportati alla scena generale, e in essa venissero derubati della loro irripetibile unicità. Basta una fotografia, e per di più "falsa" - quella famosa della bandiera, scattata il 23 febbraio da Joe Rosenthal - per fare di Iwo Jima ciò che non fu, soprattutto per chi vi morì. Come se per loro una barca fosse stata calata in mare, John "Doc" Bradley (Ryan Philippe), Ira Haynes (Adam Beach) e Rene Gagnon (Jesse Bradford) vengono recuperati dall'orrore in cui sono stati mandati a perdersi. Hanno salva la vita, ma solo perché accettino di dimenticare, di mentire, e anzi proprio di mettere in scena il loro eroismo. Devono tornare a innalzarla, quella bandiera che altri hanno davvero alzato. Lo devono fare in uno stadio gremito di uomini e di donne, tutti insieme entusiasti e urlanti, così simili ai marine in rotta verso Iwo Jima.
Tornati in patria, dunque, sono chiamati eroi, ma non riescono a convincersi d'esserlo. Ognuno a suo modo, dettagli singolari anche in questo, hanno troppo vive nella memoria le immagini terribili della loro guerra, del loro perdersi nell'insignificanza. Non è la totalità della scena quello che per loro ha valore. Quello che davvero sentono, quello cui davvero restano coerenti, sono invece altre singolarità. Eroe, conclude Flags of our Fathers, non è chi muore per la patria, ma chi si mette in rischio per la vita del "dettaglio" che gli sta di fianco.
P.S. Quando già scorrono i titoli di testa, passano sullo schermo fotografie recuperate dal mare del tempo. Vi si vedono, in bianco e nero, gli esseri umani che allora morirono, o che soffrirono la rnorte degli altri, compagni e nemici. Conviene guardarli con attenzione e commozione, quei loro volti singolari e irripetibili.
Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
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