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Mercoledì 03 Luglio 2024
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FLEE
Drammatico/Animazione/Documentario
di Jonas Poher Rasmussen
con Daniel Karimyar, Fardin Mijdzadeh, Milad Eskandari, Belal Faiz
89 minuti - Danimarca, Francia, Svezia, Norvegia 2021

La recensione di Flee ci permette di parlare di un film dal percorso notevole, culminato nella tripla nomination all'Oscar come miglior documentario, film internazionale (per la Danimarca) e film d'animazione. Una tripletta d'eccezione per un'opera che, dopo aver fatto parte della fantomatica Selezione Ufficiale di Cannes 2020 (nel senso che è ufficialmente considerato parte delle selezioni del festival, anche se l'edizione di quell'anno non si è mai tenuta), ha riscosso consensi al Sundance (dove ha trionfato nella sezione dei documentari internazionali), ad Annecy (dove ha vinto il premio come miglior lungometraggio animato e il riconoscimento per la colonna sonora) e a Karlovy Vary. A questo si aggiunge il sostegno entusiasta di Bong Joon-ho, che lo ha eletto uno dei suoi film preferiti del 2021, e di Riz Ahmed e Nikolaj Coster-Waldau, che si sono offerti per essere accreditati come produttori esecutivi senza ricevere alcun compenso, al fine di aiutare il progetto in termini di distribuzione, e hanno poi doppiato i due protagonisti nella versione in lingua inglese. Il titolo di Flee si riferisce alla fuga di Amin Nawabi, arrivato in Danimarca dall'Afghanistan dopo varie peripezie quando era bambino. Felicemente integrato nella vita quotidiana di Copenaghen e in procinto di sposarsi con l'uomo che ama, Amin non ha mai veramente raccontato la propria storia ad altre persone, nemmeno agli amici di una vita. Tra questi c'è il cineasta Jonas Poher Rasmussen, il primo a cui Amin concede un'intervista per parlare del suo travagliato percorso fino a oggi. Da quella chiacchierata nasce la cornice narrativa del film, creata con tecniche di animazione tradizionale (ma senza ricorrere al rotoscoping, come sarebbe la prassi in casi come questi), unita a sequenze che ricostruiscono il passato di Amin, dai primi anni tranquilli in Afghanistan allo scoppio della guerra che costrinse l'intera famiglia a darsela a gambe, con destini complessi per ciascuno dei partecipanti. Già nel 2008, guarda caso sempre a Cannes, ci fu Valzer con Bashir, documentario che si serviva del medium animato per restituire la dimensione onirica e orrifica delle esperienze del regista Ari Folman e dei suoi contemporanei, tormentati da incubi o, nel caso del cineasta, privi di ricordi di ciò che accadde durante la guerra tra Israele e Libano nel 1982. Una dolorosa, ipnotica ricerca introspettiva, non senza controversie (il film fu vietato in Libano a causa dell'argomento trattato, e se ne parlò - a torto, secondo Folman - come di un esempio dell'atteggiamento dell'esercito israeliano, che esprime rimorso per le proprie azioni senza poi però effettuare cambiamenti concreti), dove l'approccio stilizzato sottolineava l'aspetto inquietante della realtà di cui l'autore non conservava più alcun ricordo. Un cuore di tenebra - letteralmente, visto il gioco cromatico - che rimaneva impresso a lungo. Non ci sono considerazioni simili nel lavoro di Rasmussen. O meglio, il trauma c'è, ma senza la componente opprimente e quasi horror che si riscontrava nell'opera di Folman, dal momento che Amin è al sicuro (al netto dell'uso di un nome posticcio nel film per ragioni di privacy) e, in teoria, privo di colpe da espiare a parte aver taciuto il tutto anche ai propri cari nel paese d'adozione. L'animazione non ha lo scopo di rendere più visivamente chiaro l'orrore insito nella confusione mentale dei personaggi, bensì quello di raccontare una storia in modo diretto e semplice, usando il medium e per tutelare il diretto interessato, e per ricostruire il passato senza ricorrere in modo palese al re-enactment come accade nei documentari live-action (in particolare nella filmografia di Errol Morris, inizialmente osteggiato dall'Academy per aver inserito frammenti di finzione in quello che doveva essere un documento aderente al reale). E considerando che il passato viene introdotto da un brano come Take On Me, il cui video ufficiale è uno degli esempi migliori dell'uso creativo dell'animazione, c'è anche una certa coerenza nella scelta formale del regista. Il giovane Amin scappa dalla patria, rosa da un conflitto le cui sequele emotive sullo schermo sono ancora più forti in questi giorni, con il film che esce nelle nostre sale mentre è in corso un esodo di rifugiati dall'Ucraina; quello adulto, invece, smette di scappare dal proprio passato, affrontandolo di petto, usando l'intervista come confessione e seduta di terapia, per mettersi in pace con la sua duplice identità di expat mediorientale e cittadino danese. Rasmussen gli viene incontro con una struttura drammaturgica e un apparato formale la cui disarmante semplicità restituisce tutti gli strati di una realtà complessa, terrificante, brutale. È un racconto umano che, anche grazie all'approccio stilistico, trasforma le specificità culturali del vissuto del protagonista in un'esperienza dal dirompente impatto universale. L'unica fuga che non viene concessa è allo spettatore, perché al netto delle illustrazioni che possono trarre in inganno circa il bacino d'utenza del film (perché nel 2022 c'è ancora chi parte dal presupposto che l'animazione sia esclusivamente a uso e consumo dei bambini), non è possibile scappare da un lungometraggio che ancora una volta, per il contesto storico della sua uscita, ci ricorda quanto il passato non sia mai veramente qualcosa che ci si lascia alle spalle, animate o meno.
Max Borg (Movieplayer.it)
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