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Mercoledì 03 Luglio 2024
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UN DIVANO A TUNISI
Commedia
di Manele Labidi Labbé
con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura Mastoura, Aïsha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Ramla Ayari, Moncef Anjegui
87 minuti - Tunisia, Francia 2019

Si sa che gli psicanalisti sono i primi ad avere problemi. Ce lo conferma la recensione di Un divano a Tunisi, garbata commedia mediorientale interpretata dall'attrice iraniana Golshifteh Farahani. Capelli scomposti, abiti casual, la bella Golshifteh interpreta Selma, 35enne tunisina emigrata con la famiglia a Parigi quando era piccola che decide inspiegabilmente di fare ritorno a Tunisi, dagli zii, dopo la laurea in psicologia per esercitare un mestiere che finora non sembra aver attecchito molto in Tunisia. Nello studio che Selma apre sul tetto della casa di famiglia si presentano gli individui più strani, molti dei quali non sembrano aver chiaro a cosa serva esattamente una psicanalista. In più ci si mette Olfa (Aisha Ben Miled), la cugina diciottenne di Selma ribelle e anticonformista, a scompigliarle l'esistenza, per non parlare delle frequenti visite della polizia, visite non del tutto disinteressate. Con questo materiale a disposizione le premesse per fare di Un divano a Tunisi un prodotto irresistibile ci sarebbero tutte, anche se l'esordio della regista Manèle Labidi risulta stemperato rispetto al potenziale. L'assunto alla base del film è che i tunisini devono affrontare ben altri problemi che curare il loro male di vivere. La psicanalisi viene vista così come un'attività da occidentali, un capriccio o addirittura una pratica disdicevole perché svolta da una "parigina". D'altro canto, nonostante i consigli dei parenti e le intimidazioni della polizia, Selma si è intestardita non fare ritorno a Parigi per qualche misteriosa ragione che è determinata a non rivelare. I personaggio interpretato da Golshifteh Farahani, quasi sempre presente in scena, calamita l'attenzione con la sua indipendenza e i suoi modi bruschi mentre intorno a lei sciama un'umanità colorata che non sembra stare poi così bene (di testa), ma al tempo stesso non sa da dove cominciare per risolvere i propri problemi. Con il suo sapore esotico, il pubblico occidentale guarda con curiosità a Un divano a Tunisi nella speranza di apprendere qualcosa in più sulla Tunisia post primavera araba. Manele Labidi sembra, però, determinata a far sì che a dominare sia la leggerezza. Così temi come l'emancipazione femminile, l'omosessualità nel mondo arabo, la prevaricazione della polizia, il peso della religione nella vita quotidiana vengono accennati in maniera superficiale o diventano materiale per gag, mentre la regista sembra non avere occhi che per Selma. L'intento sembra quello di voler proporre un modello femminile forte per le giovani donne arabe grazie all'interpretazione di Golshifteh Farahani, a tratti grintosa a tratti enigmatica. Selma è determinata, coraggiosa, indipendente, saggia e per lo più e non sembra avere bisogno di un uomo al suo fianco nonostante non passi esattamente inosservata. La telecamera accarezza i suoi riccioli al vento mentre guida per le strade di Tunisi accompagnata dalle notte di Città vuota o Io sono quel che sono di Mina, vera e propria dichiarazione d'intenti sui titoli di coda. Lo spunto per dare uno sguardo sulla società tunisina contemporanea proviene dai pazienti di Selma, una galleria di umanità varia che permette alla regista di mettere in scena gustose macchiette. Tra queste la parrucchiera Baya, dotata di uno spiccato senso degli affari e senza peli sulla lingua, l'improbabile Raouf che, dopo aver scoperto l'esistenza di Selma e della psicoterapia, è fermamente convinto di non poterne più fare a meno. E poi c'è Naim, agente di polizia tutto d'un pezzo che, pur subendo l'immancabile fascino di Selma, è determinato a costringerla a rispettare la legge perché, anche se non è Parigi, in Tunisia "non siamo dei selvaggi". Di tutti i personaggi secondari il più bello e umano è quello del vicino di casa di Selma, Fares (Jamel Sassi), imam in crisi perché non si sente adeguato al ruolo che ricopre nella comunità. A conti fatti, la Tunisia non è poi così sana (di mente) come vorrebbe far credere. Il cambiamento portato dalla primavera araba ha attecchito solo superficialmente di fronte a un paese attaccato alle proprie tradizioni e diffidente nei confronti dell'occidente. Le giovani generazioni, rappresentate da Olfa, cercano una via di fuga preferendo la menzogna alla stagnazione. Gli adulti, ugualmente frustrati, sono rappresentati come incapaci di godere di quel che hanno o oppressi dall'ambiente che le circonda. La forma di ribellione suggerita è l'emancipazione attraverso il proprio lavoro perché il mondo lo si cambia partendo dal quotidiano. Anche realizzando una commedia garbata, classica nella forma, vivace nei toni e negli intenti, che rappresenta un atto di fiducia nel proprio paese. Anche qui, del resto, è possibile trovare un frammento di felicità. Basta volerlo.
Valentina D'Amico (Movieplayer.it)
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