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LACCI
Drammatico
di Daniele Luchetti
con Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno
100 minuti - Italia 2020

Allacciarsi le scarpe. Un gesto quotidiano che si compie quasi inconsapevolmente, sempre uguale nel tempo. Eppure, in tutta questa normalità, c'è chi lo fa in modo particolare, quasi unico. Vogliamo iniziare così la nostra recensione di Lacci, il nuovo film di Daniele Luchetti e tratto dall'omonimo romanzo di Domenico Starnone scelto come film d'apertura di Venezia 77. Un film che non sembra scelto a caso, a partire dal titolo, che dà il via a quest'edizione particolare, per certi versi atipica, ma fortemente voluta del Festival: nel film i lacci servono a riallacciare i rapporti e sancire un'unione e così accade anche tra gli spettatori e il cinema. Eppure, nell'interessante vicenda che coinvolge una coppia sposata, Vanda e Aldo, a cavallo tra gli anni Ottanta e il nostro presente, i lacci sono anche soffocanti, legami indissolubili che spesso fanno anche soffrire, così ben attorcigliati e stretti da non poterne sciogliere il nodo, sono le stringhe di scarpe che fanno male e che non si vede l'ora di toglierle per respirare e stare meglio. Siamo nella Napoli degli anni Ottanta e la vita coniugale di Vanda (Alba Rohrwacher) e Aldo (Luigi Lo Cascio) sembra essere perfetta. Due figli (Anna, la maggiore e Sandro, il minore), una vita semplice ma all'apparenza perfetta e una netta divisione dei ruoli genitoriali che crea un semplice, ma riuscito equilibrio: Vanda è la madre decisa, pronta a fare di tutto per il bene dei figli, ma all'occorrenza severa, Aldo il padre buono che si preoccupa di leggere le fiabe ai bambini prima di andare a dormire. Tutto cambia una sera, quando una semplice discussione e uno sguardo di troppo portano alla luce una semplice, ma triste verità: Aldo ha una relazione con una giovane donna di nome Linda, probabilmente si è pure innamorato e pensa di trasferirsi a Roma abbandonando la famiglia. Molti anni dopo, Vanda e Aldo sono ancora sposati e partono per una settimana di vacanza. Al loro ritorno trovano la casa a soqquadro: sono stati dei ladri che volevano rubare qualcosa o che, in mezzo alla caotica distruzione, hanno lasciato in bella vista altri segreti rimasti sopiti? Le risposte le avremo nel corso del film che viaggia tra diverse città, diversi decenni e diversi punti di vista, tra passato e presente, facendo coincidere tutto negli ultimi liberatori venti minuti finali. Inizia con un ballo di gruppo che simboleggia un ripetuto girotondo composto da passi avanti, passi indietro, l'avvicinarsi e l'allontanarsi: sono gli stessi protagonisti che ballano, si muovono, sono in definitiva vivi e attivi; a mano a mano che si procede, però, il movimento lascia sempre più spazio allo sguardo, alla passività, all'osservazione: si diventa sempre più estranei fino ad abbracciare il punto di vista di un animale domestico, ennesima vittima inconsapevole delle conseguenze di un rapporto complesso e senza soluzione. Se la trama risulta interessante per tutta la durata del film è grazie a un uso sapiente del montaggio che - è proprio il caso di dirlo - riesce a legare i diversi momenti temporali del film in maniera non scontata o banale (certe soluzioni danno veramente l'impressione di segreti o rancori soffocati negli anni e mai del tutto dimenticati), non sempre, soprattutto a livello di dialoghi, tutto funziona per il meglio. Spesso si ha l'impressione di vedere un'opera teatrale, con battute un po' troppo letterarie e artificiose che mal si adattano a una storia piuttosto comune e quotidiana, nonostante i personaggi appartengano alla media e acculturata borghesia. È proprio nell'utilizzo di un perfetto italiano, a volte con termini parecchio ricercati e che non appartengono alla vulgata quotidiana (alcuni dei quali messi in bocca a bambini di otto anni), e con accenti e cadenze che scompaiono per poi ripresentarsi brevemente e in rare occasioni, che si perde quel senso di naturalezza creando un distacco nella vicenda: i personaggi sembrano essi stessi attori, pronti a recitare battute scritte da un demiurgo invisibile e pronti a spiegare a parole ciò che, nel cinema, si potrebbe raccontare con la stessa intensità attraverso le immagini. È paradossale sentire un personaggio dire "Tu devi dire quello che provi" in un film in cui tutto, dai ricordi di un'esperienza comune ai personali pensieri interiori, è raccontato ad alta voce. Scelta di scrittura, questa, che non aiuta particolarmente il lavoro degli attori che, nonostante la bravura (in particolare Laura Morante e Silvio Orlando a cui è destinata la sezione migliore del film), alternano momenti ispirati (c'è uno sguardo bellissimo di Alba Rohrwacher che riassume e racconta l'intero tormento interiore) ad altri in cui risultano artificiosi. Fortunatamente la regia di Daniele Luchetti è particolarmente ispirata: si prediligono i primissimi piani che, illuminati da una luce ricercata, il più delle volte bucano lo schermo mantenendo alto il coinvolgimento emotivo. L'utilizzo della camera a mano dona quell'intimità necessaria che compensa quello che non funziona a livello di scrittura. Lacci che legano le persone nonostante gli ostacoli della vita, così stretti (come le scarpe che porta Aldo, che sono anche metafora della sua vita coniugale ormai assopita) da non poter essere recisi, ma allo stesso tempo, proprio per essere così presenti e importanti, da diventare nodi intorno al collo, soffocanti. Il personaggio di Aldo sembra un fantasma, capace di ritornare alla vita solo con l'amante (perché giovane, bella, perfetta, capace di un erotismo a cui la moglie ha rinunciato, o forse non ha mai davvero avuto), ma anche un fantasma per i propri figli che crescono senza la sua presenza, un fantasma per la moglie che si sente perseguitata dalla sua assenza (fisica)/presenza (spirituale) tanto da provare a raggiungerlo in quella dimensione spettrale a cui lui appartiene. Aldo non si allaccia le scarpe come gli altri, ha un suo metodo particolare, unico nel suo genere: due nodi che si attorcigliano, simbolo della sua doppia vita e della sua costante indecisione. Un nodo che non appartiene solo alle scarpe, ma alla vita stessa. Un nodo che lui stesso ha creato tradendo la moglie e che non ha la possibilità di slacciare. E pure i figli, prima testimoni quasi inconsapevoli della frattura famigliare, poi sempre più partecipi, anche attraverso sofferenze personali (la figlia sembra accusare particolarmente il colpo e le conseguenze si vedranno nel tempo) o essere talmente chiusi in questa morsa genitoriale da crescere attraverso questi modelli tossici (è il caso del figlio che sembra aver seguito le orme del padre in quanto a fedeltà matrimoniale). Forse l'unica soluzione per ritrovare quella pace e quella serenità è proprio quella di recidere brutalmente il nodo, tagliare i lacci oltre che allentarli, calzare una scarpa non adatta e non perfetta, ma quantomeno comoda. Concludiamo la nostra recensione di Lacci sottolineando come, nonostante alcuni difetti di scrittura che rendono molti dei dialoghi particolarmente artificiosi e innaturali, il film sia convincente grazie a un ritmo costante che non presenta momenti di stanchezza e alla regia sapiente e parecchio ispirata di Luchetti. Gli attori sono penalizzati dai dialoghi, ma sono capaci, attraverso gli sguardi e il linguaggio del corpo, a dare vita ai momenti migliori del film. Ma il vero punto di forza del film è nelle tematiche affrontate, se restiamo incollati allo schermo è perché, nel bene o nel male, Lacci parla a tutti noi: delle nostre relazioni, dei nostri desideri sopiti, della nostra inadeguatezza. Alla fine, non è un caso che sia un gesto comune come allacciarsi le scarpe il punto centrale del film.
Matteo Maino (Movieplayer.it)
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