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Mercoledì 03 Luglio 2024
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MINARI
Drammatico
di Lee Isaac Chung
con Steven Yeun, Ye-ri Han, Yuh Jung Youn, Alan S. Kim, Noel Cho
115 minuti - USA 2020

È con grande piacere che iniziamo a scrivere la nostra recensione di Minari, per due motivi. Il primo e forse più banale è quello di poter parlare di un film molto apprezzato in patria, candidato a ben 6 premi Oscar, tra cui Miglior Film, e che tratta con delicatezza la storia di una famiglia coreana in cerca di fortuna nell'Arkansas. Il secondo motivo, invece, è la consapevolezza di poter parlare del film di Lee Isaac Chung in vista della sua uscita nelle sale italiane. La scelta del distributore italiano Academy Two di rilasciare Minari solo a sale riaperte è stato un atto d'amore che non solo stimola il ritorno al cinema, dopo mesi di chiusure, con un film forte, ma supporta quella sacralità della sala cinematografica che in un film intimo come Minari trova la giusta dimensione. A ricordare che il grande schermo va vissuto anche in assenza di effetti speciali. Proprio nel suo allontanarsi dalla spettacolarità sta la forza di Minari, un racconto di stampo autobiografico (gran parte della storia è basata sull'infanzia dello stesso regista) che lascia siano le emozioni e i legami famigliari a fare da padroni. Siamo nel 1983 e la famiglia Yi si trasferisce dalla California a una zona rurale dell'Arkansas per volere del padre Jacob (Steven Yeun, candidato agli Oscar 2021 come miglior attore protagonista). Jacob crede nel sogno americano e nel self-made man, l'uomo che costruisce la propria fortuna da solo, novello padre pellegrino che parte dal basso. Il suo sogno è quello di coltivare il terreno intorno alla modesta casa su ruote che ha comprato e dare vita a una fattoria. La moglie Monica (Han Ye-ri), che ha dovuto abbandonare la sua piacevole vita californiana e fa fatica ad adattarsi a questo nuovo tenore di vita, è invece più tradizionalista, più legata ai principi della cultura coreana. Nasceranno tensioni e conflitti che faranno vacillare la serenità quotidiana, mentre il piccolo David (un incredibile Alan Kim), insieme alla sorellina, osserveranno a loro modo il trascorrere degli eventi instaurando un legame sempre più profondo con la nonna materna. Proprio quest'ultima sarà il perno centrale che rivoluzionerà la famiglia Yi essendo una persona allo stesso tempo legata alle tradizioni eppure dal carattere vivace ed esplosivo. E forse proprio coltivando i minari, una piccola pianta del Paese d'origine, insieme alla nonna, David avrà modo di capire molto di più su sé stesso e il mondo che lo circonda. Non vogliamo raccontare troppo del film, sia per lasciare un po' di sorpresa e piacere nell'abbandonarsi al racconto, sia perché Minari non sceglie la via della novità, almeno a livello narrativo. Sceglie, invece, una strada più raffinata e quindi più nascosta: un racconto fatto di piccoli gesti, di piccoli momenti intimi, di quotidianità poco spettacolare e straordinaria. E nel farlo mette in scena parecchi conflitti: quello tra la cultura americana e quella coreana, rappresentati dal padre e dalla madre di David; quello tra l'infanzia e l'età adulta (i genitori e la nonna con David e la sorellina), ma anche quello tra fede e ragione. Il sogno americano che si infrange con la realtà americana, il sentirsi americani contro l'essere, in fondo al cuore, coreani. È il conflitto più interessante del film, che racconto di persone che hanno bisogno di credere in qualcosa, ma allo stesso tempo cercano di racchiudere all'interno della ragione l'imprevedibilità della vita. Jacob e Monica (il primo soprattutto) lavorano controllando il sesso dei pulcini: "I maschi vanno gettati perché non servono" insegnerà Jacob al piccolo David. Questo è un pensiero che tormenta il personaggio: la paura di sentirsi inutile e la necessità costante di dimostrare di essere in grado di fare qualcosa. Questa lotta alla ricerca di un senso alla propria esistenza è raccontata dalla regia di Lee Isaac Chung con un piacevole ritmo che non annoia mai e uno sguardo docile e sereno, anche nei momenti più cupi. Lo spettatore è invitato, di conseguenza, a notare la poesia che circonda la vita dei personaggi e a quanto l'inesplicabile faccia parte del mondo. Non si può raccontare la poesia se il racconto non è supportato da un cast all'altezza. Nonostante la candidatura agli Oscar di Steven Yeun, non riteniamo sia lui il vero punto di forza nel cast, che comunque è di alto livello. Kim Kurumada, nel ruolo di David, sconvolge per la sincerità dimostrata sullo schermo e per la facilità con cui riesce a mostrare in totale onestà l'animo di un bambino che si ritrova a suo modo spaesato. Vero e proprio cuore del film (è proprio il primo volto che vediamo e il film segue il suo punto di vista), David riesce a rendere Minari un film essenziale e ben più profondo di quanto possa sembrare a prima vista (una sua azione nel finale ha la forza dell'epifania). Ma è Youn Yuh-jung, la nonna di David, a rubare la scena. Dal suo ingresso nell'economia della storia si dimostra il personaggio con cui empatizzare di più, il modello da seguire, il tornado che rovescia la fredda routine quotidiana. E nel momento in cui anche il suo personaggio viene messo alla prova, Youn Yuh-Jung si dimostra assolutamente eccezionale nel cambiare registro e, senza parole, usare il corpo e gli sguardi per raccontare.
Matteo Maino (Movieplayer.it)
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