Drammatico di Quentin Tarantino con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley 161 minuti - USA 2019
Ci accingiamo a scrivere questa recensione di C'era una volta a... Hollywood mantenendo fede alla "promessa" fatta al regista Quentin Tarantino, ovvero niente spoiler e niente che possa rovinare l'esperienza agli spettatori. Tutto questo vuol dire necessariamente non poter dire nulla soprattutto della parte finale del film e quindi rimandare ad approfondimenti successivi alcuni degli elementi più significativi della pellicola.
Dopo questa necessaria premessa, però, è impossibile non cominciare subito col dire che C'era una volta a... Hollywood (Once Upon a Time in Hollywood) - nono e forse penultimo (ma speriamo di no!) film di Tarantino - abbia rappresentato per noi una mezza delusione: nonostante fossimo tra coloro che lo hanno a lungo atteso e che ritengono il regista del Tennessee uno degli autori più geniali degli ultimi decenni, da questo film con due protagonisti d'eccezione quali Leonardo DiCaprio e Brad Pitt ci aspettavamo molto di più.
È evidente che gran parte della delusione sia dovuta proprio alle enormi aspettative che un progetto del genere si portava dietro, ma anche al netto di tutto questo è indiscutibile che Quentin Tarantino in passato abbia fatto molto di meglio di così e che quindi ci troviamo costretti a parlare di un passo indietro rispetto ai suoi ultimi lavori. Anche perché con Bastardi senza Gloria, Django Unchained e The Hateful Eight Tarantino era riuscito ad omaggiare, in modo brillante e sorprendente, il cinema di genere inserendo comunque dei temi (anche politici) forti e dirompenti. Temi che sembrano mancare quasi del tutto in questo nuovo film, a favore di un discorso di celebrazione del cinema, e in particolare quello della Hollywood degli anni '60, ancora più prorompente ma anche dominante.
La storia di C'era una volta a... Hollywood probabilmente sarà nota già a tutti, ma in ogni caso segue le vicende di due amici, l'attore Rick Dalton e l'amico stuntman Cliff Booth, nella mecca del cinema del 1969. I due non solo condividono un momento un po' difficile della loro carriera, ma si ritrovano anche ad essere vicini di casa di Roman Polanski e sua moglie, l'attrice Sharon Tate, proprio nel periodo in cui anche la famigerata famiglia Manson si aggirava per le colline di Hollywood.
Dire di più vorrebbe venire meno alla volontà del regista e quindi ci fermeremo qui, ma va anche sottolineato che in termini di mera trama non ci sarebbe poi da aggiungere molto di più, perché il film vive soprattutto di situazioni e "vignette", spesso anche molto divertenti, quasi tutte legate al mondo del cinema. E infatti l'impressione che si ha è che per una volta Tarantino più che concentrarsi sulla sceneggiatura vera e propria, abbia riversato tutto il suo interesse e il suo talento soprattutto sulla (ri)costruzione di set, ambienti e film, veri e fittizi, della Hollywood che fu.
Quello che sicuramente funziona nel film è l'inedita coppia formata da Leonardo DiCaprio e Brad Pitt che guida un cast assolutamente stellare e davvero troppo lungo da citare tutto. I due attori formano una coppia ben assortita e insieme danno vita ad alcuni duetti di alto livello, anche se in verità le migliori performance sono quelle in cui entrambi lavorano in solitaria: DiCaprio ha molto spazio nella parte metacinematografia, recitando di fatto in molteplici film e in modo sempre convincente, ma con un paio di vette assolute quando deve entrare e uscire dai vari personaggi che il suo Rick Dalton è chiamato a interpretare; a Brad Pitt invece spetta il personaggio più cool e brillante, quello che ha forse le sequenze più memorabili ed esaltanti dell'intera pellicola.
Sui comprimari invece arrivano le prime note dolenti, perché se è vero che il cast nel suo complesso è impressionante per quantità e qualità, sono davvero pochi quelli che hanno spazio a sufficienza. Tra questi c'è certamente Al Pacino, co-protagonista dei dieci minuti iniziali, e la splendida Margot Robbie che interpreta la Tate: il suo personaggio però è il vero tallone d'Achille del film perché, in fondo, poco più di un McGuffin al contrario; l'attrice ha pochissime battute e un approfondimento pressoché nullo, una novità (in negativo) per un regista come Tarantino che in passato ci ha regalato così tanti personaggi femminili memorabili. (N.B. nel montaggio definitivo c'è leggermente più spazio per il suo personaggio e la situazione migliora leggermente rispetto alla prima versione vista a Cannes ndr)
Cos'è quindi che fa di questo C'era una volta a Hollywood la prima, parziale delusione di Quentin Tarantino? Se dovessimo sintetizzare la nostra opinione in poche parole, diremmo che, di fatto, è poco ambizioso. Perché se la cura di tutto ciò che riguarda la ricostruzione d'epoca (i manifesti, le insegne, gli spezzoni stessi di film e serie con lo stile di allora) è impeccabile e ricco di citazioni e divertissment tipici del regista, quello che sembra mancare è il film nel suo insieme, soprattutto considerato che la sua idea "forte", che emerge solo alla fine, era già facilmente intuibile fin dalla genesi del progetto e soprattutto in parte riciclata da uno dei film precedenti.
Ma a pensarci bene quello che si nota di più è addirittura la (quasi) totale assenza di dialoghi e scene davvero tarantiniane (tranne che nel finale), ovvero tutte quelle sequenze brillanti, geniali e coraggiose che in passato sono diventate degli instant cult già alla prima visione e che hanno segnato in modo indelebile il cinema degli ultimi tre decenni. Il che non significa che questo C'era una volta a... Hollywood verrà presto dimenticato o che sia addirittura un brutto film, ma semplicemente che un autore come Tarantino ci ha abituato in passato ad un livello troppo più alto per poterci dire veramente soddisfatti.
La cosa che veramente ci stupisce è che, soprattutto negli USA, il film sia stato così acclamato da considerarlo addirittura tra i migliori, se non il migliore in assoluto, della filmografia di Quentin Tarantino. È stata lodata la ricostruzione d'epoca, la fotografia, i molteplici piani sequenza, le tante trovate e citazioni (meta)cinematografiche: tutti elementi indiscutibilmente riusciti anche a nostro parere, ma che da soli non possono fare un capolavoro. E, soprattutto, non sono cose che decretano la maturità di un regista: che poi, a dirla tutta, che Tarantino fosse ulteriormente "cresciuto" come regista a noi era sembrato evidente molto più dalle pellicole precedenti che da questo. O forse vogliamo considerare la mancanza di alcuni elementi tipici del suo cinema (come l'iperviolenza o i dialoghi/monologhi fiume) quale segno di maturità? Perché se così fosse, ci sarebbe però da notare come tutto questo sia vero solo fino ad un certo punto e che l'eventuale passaggio ad un "cinema più maturo, serio e drammatico" sia assolutamente parziale, visto che con il finale si ritorna al Tarantino a cui siamo sempre stati abituati.
Forse sarebbe più corretto, sebbene più doloroso, ammettere che le tante critiche che in passato venivano fatte a Tarantino per una volta sono parzialmente vere: in questa occasione l'ispirazione è forse mancata, e il suo film sembra davvero offrire poco o nulla di nuovo. La sensazione è che sia in fase di sceneggiatura che in quella di montaggio (probabilmente il più problematico e irrisolto della sua carriera) manchi quel senso di completezza e compattezza tipica del suo cinema: per una volta, forse, quello che Tarantino aveva visualizzato nella sua testa non ha trovato piena corrispondenza su pellicola. E il risultato è solo un film discreto, e non l'opera di un genio com'era sempre stato finora. Solo il tempo ci dirà se si tratta solo di un caso oppure no: noi siamo ottimisti che ancora per molto tempo non dovremo dire C'era una volta Quentin Tarantino.
Luca Liguori (Movieplayer.it)
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