Biografico/Drammatico di Gianni Amelio con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi 126 minuti - Italia 2020
Ci sono figure che solo il cinema, in quanto arte, ha il potere di consegnare alla memoria collettiva in maniera diversa da come la storia e le cronache lo hanno fatto. La priorità dell'espressione artistica è scovare l'umano anche laddove sembrerebbe impossibile, distillando le ombre e filtrando i chiaroscuri.
Sospendere quindi qualsiasi giudizio storico e politico è stato necessario se non urgente per scrivere la recensione di Hammamet, il film (in sala dal 9 gennaio) con cui Gianni Amelio si avventura nel ritratto di Bettino Craxi che, al netto delle polemiche già ampiamente suscitate e che probabilmente continuerà a sollevare, merita la giusta attenzione. Per la poesia e la finezza con cui restituisce la complessità di una figura icona di un'era politica che concluse la sua parabola sotto a un lancio di monetine, ma soprattutto per lo straordinario trasformismo di Pierfrancesco Favino: immenso, shakespeariano, decadente. È lui la vera forza di questo affresco.
Hammamet arriva nel ventennale della morte del leader del PSI, la narrazione procede per stralci di intimità e visioni oniriche, che si fanno più insistenti, forse ridondanti, nell'ultima parte del film. Della dimensione politica lo spettatore vedrà ben poco: solo la straniante scena iniziale, un prologo prima dei titoli di testa dove il volto di Craxi campeggia sui maxi schermi della Piramide di Filippo Panseca, durante il 45° congresso socialista all'ex Ansaldo di Milano. Subito dopo la camera si sposta sui garofani lasciati a terra e sulle bandiere di partito ammainate: toccherà invece a un piano sequenza sulla corsa di un gruppo di bambini urlanti, portare il pubblico nella dimensione privata che Gianni Amelio ha scelto per raccontare il protagonista di questa storia. È la Tunisia della latitanza, quella in cui Bettino Craxi era fuggito nel 1994 per sottrarsi alle condanne per corruzione e finanziamento illecito al partito. Ad Hammamet, dello statista che si ergeva trionfante dal palco dell'ex Ansaldo rimane ben poco: è un uomo stanco, malato, claudicante, infilato in un paio di scarpe di tela, "vittima di se stesso, del suo orgoglio, della sua arroganza smisurata" e che adesso somiglia molto "ai nani di cui si è circondato".
È un film senza nomi: Bettino Craxi è semplicemente "il Presidente", la figlia Stefania (Livia Rossi) è Anita, come la moglie di Giuseppe Garibaldi, figura a cui era molto legato: ce lo ricorda la scena che lo sorprende a intonare "Garibaldi fu ferito". Rimangono anonimi i vari volti che andranno a fargli visita nella villa di Hammamet: dall'amante (Claudia Gerini) all'ospite inatteso, un vecchio democristiano (Renato Carpentieri). Si chiama invece Fausto (Luca Filippi) il misterioso ragazzo che piomberà negli ultimi mesi di vita del leader, figlio di un compagno di partito morto suicida; un personaggio di fantasia, alla cui ambiguità il regista affida il registro del thriller.
L'atmosfera intorno è crepuscolare e a tratti grottesca, cadenzata sullo sfondo dall'ingenua esultanza di alcuni programmi dell'epoca, o dagli spari e dalle voci dei western in bianco e nero, che arrivano dalla tv perennemente accesa. Un andamento noir che per osmosi finisce per trasferirsi all'intero film; il resto lo fa una colonna sonora che segna la prima collaborazione di Nicola Piovani con Amelio, una partitura che riecheggia L'internazionale "frantumata, spezzata" come la definisce lo stesso regista.
Hammamet non sarebbe stato però lo stesso senza Pierfrancesco Favino, che scompare sotto il rituale di ore e ore di trucco, regalando al personaggio la statura di una figura tragica e insieme di spietata ironia: un Re Lear nel suo rapporto con la figlia, che combatte strenuamente per riabilitarlo. Favino cannibalizza l'intero film, giganteggia dall'inizio alla fine, è superbo in un'interpretazione che dalla camminata alla voce, ai piccoli tic, ai gesti va oltre la pura imitazione, conquistando un posto d'onore nell'Olimpo delle performance da Oscar. Bravissimi anche i comprimari dalla sempre misurata Livia Rossi alla caratura di Renato Carpentieri, passando per la fragilità di Alberto Paradossi (il figlio Bobo); meno brillante la recitazione di Luca Filippi, poco incisiva e priva dello slancio necessario a tener alto il livello del film. Una metafora sul potere e sul tramonto di un'epoca, prima che un melò come nelle intenzioni del regista, che cita Douglas Sirk e Jacques Tourner.
Elisabetta Bartucca (Movieplayer.it)
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