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Mercoledì 03 Luglio 2024
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WAJIB - INVITO AL MATRIMONIO
Drammatico
di Annemarie Jacir
con Mohammad Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreik, Tarik Kopty, Monera Shehadeh
96 minuti - Palestina 2017

"Come va in America?" "È l'Italia". "Non è l'America? Va bene lo stesso". È una gag che riaffiora più volte durante i novanta minuti di Wajib - Invito al matrimonio, il film di Annemarie Jacir (candidato al premio Oscar come miglior film straniero per la Palestina) in uscita nelle nostre sale il 19 aprile. È una cosa che dicono amici e parenti a Shadi, ragazzo di Nazareth tornato in Palestina dall'Italia per le nozze della sorella. Insieme al padre, Abu Shadi, 65 anni, insegnante, inizia un viaggio tra amici e parenti per rispettare un'antica tradizione: "il dovere" (Wajib) è appunto quello di consegnare personalmente gli inviti alle nozze, come forma di rispetto verso gli invitati. Confondere l'America con l'Italia, dal nostro punto di vista, ci fa un po' sorridere, tanto siamo consci che l'Italia non sia l'America, intesa come una Terra Promessa. Ma, a livello simbolico, ci fa anche capire quanto siamo lontani da un luogo come Nazareth, che pur ha dato origine alla nostra religione. E come, allora, un film come Wajib sia interessante per capire qualcosa di più su una realtà a noi poco nota. Non è la Palestina di Gaza e Ramallah, del conflitto più tragico e doloroso. È la Palestina del Nord, dove israeliani e palestinesi (il 40% sono cristiani, il 60% musulmani), apparentemente, convivono. In realtà, sono cittadini di serie A e serie B, con diversi diritti e diverse opportunità. Se in primo piano, nel film di Annemarie Jacir, ci sono questioni private, intime e familiari, sullo sfondo (ma per arrivare, alla fine, in primo piano) ci sono una serie di tensioni, di frustrazioni, di situazioni da mandare giù in silenzio. Il litigio tra padre e figlio, in merito all'invito da consegnare a Robbie, un israeliano, una sorta di commissario, un "controllore" del lavoro del padre, porta fuori tutto il non detto. Soprattutto una cosa: la difficoltà di mandare avanti una vita in queste condizioni, di accettare compromessi. Una cosa che, vista dal di fuori, dove si è tutti "eroi", non appare così difficile. Wajib è un film che vive di contrasti: c'è la diversa visione politica tra padre e figlio. C'è la distanza tra la tradizione e la modernità (la convivenza prima del matrimonio), tra le aspirazioni dei padri e quelle dei figli (uno lo vorrebbe medico, ma lui è architetto). Ma tutto viene narrato con un tono lieve, mai esasperato, dolceamaro come la vita. E, in fondo, questo film altro non è che una tranche de vie. E così, con naturalezza, si passa dal dramma (i soldati in uniforme che si siedono accanto a te in un caffè) alla commedia (un pappagallo che ti morde il dito). L'opera di Annemarie Jacir vive anche di due bellissimi volti, che sembrano scolpiti nella pietra. Sono quelli di Mohammad Bakri (Privatedi Saverio Costanzo) e Saleh Bakri (Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza), padre e figlio anche nella vita: la loro alchimia nel film si sente tutta, ed è qualcosa che arriva allo spettatore. E vive di una regia non invadente, che lascia tutto lo spazio ai dialoghi e ai volti di cui sopra. Una regia che volutamente sceglie di non essere protagonista, ma che si distingue per dei tocchi di classe. Come quel primo piano su una sigaretta, davanti al volto di chi non può più fumare, come quell'inquadratura interrotta proprio nell'attimo di un bacio, o il racconto della vista di Nazareth dal terrazzo fatto al telefono, mentendo, mentre Abu Shadi è davanti a un negozio di oggetti di Natale piuttosto kitsch. E poi quelle due donne, la madre di Shadi e la sua ragazza, evocate ma mai viste. Wajib vive di questi piccole finezze, a livello visivo e a livello di scrittura. Come quella signora ottantenne che dice di non stare su Facebook perché "lo usano per spiarci...". Wajib è meno lontano da noi di quanto sembra. Ed è anche attuale...
Maurizio Ermisino (Movieplayer.it)
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