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Mercoledì 03 Luglio 2024
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UN RAGAZZO D'ORO
Drammatico
di Pupi Avati
con Riccardo Scamarcio, Sharon Stone, Cristiana Capotondi, Giovanna Ralli, Cristian Stelluti
102 minuti - Italia 2014

Torna al cinema Pupi Avati a tre anni da Il cuore grande delle ragazze, dopo la parentesi televisiva de Il bambino cattivo e Un matrimonio. E lo fa tornando ad esplorare il rapporto-padre figlio, come nei precedenti La cena per farli conoscere, Il papà di Giovanna e Il figlio più piccolo. Il protagonista questa volta è Davide Bias (Riccardo Scamarcio) pubblicitario con ambizioni frustrate di scrittore, una relazione con l'insicura Silvia (Cristiana Capotondi), un passato recente fatto di pillole, psicoanalisi e nevrosi forse non ancora risolte. Si capisce che molte delle sue insicurezze derivano dal rapporto con suo padre Achille Bias, sceneggiatore di film si serie B degli anni 70, che lui odia e rinnega con tutte le forze, e soprattutto teme di condividerne il destino che lui giudica fallimentare. La morta improvvisa di quest'ultimo lo riporta a Roma al capezzale della madre (Giovanna Ralli), dove incontra l'affascinante quanto enigmatica Ludovica Stern (Sharon Stone), un'editrice che sembra convinta che il padre fosse invece in procinto di pubblicare un romanzo autobiografico in grado finalmente di legittimarne il talento. Spinto dalla donna, Davide si tuffa al scoperta del passato del padre, che lo porterà a scoprirsi sempre più simile a lui, in un percorso che metterà a dura prova il suo fragile equilibrio. Ancora un film incentrato sulla figura paterna e sul rapporto padre-figlio, vera ossessione del cinema di Pupi Avati, che il padre lo ha perso quando aveva soli dodici anni. Nella lunga galleria dei ritratti paterni dei suoi film, a cui hanno dato volto e carattere altrettanti attori così diversi tra loro, da Diego Abatantuono a Silvio Orlando, fino a Christian De Sica, per stessa ammissione del regista, troviamo in quest'ultimo lavoro proprio quella figura in cui lui più si identifica: questa volta infatti il padre non c'è, perché muore all'inizio del film, ma la sua immagine e il suo ricordo rivivono attraverso il figlio e si ripercuotono sul suo presente, é l'assenza che inevitabilmente pesa più della presenza stessa. Una ricerca molto intima dunque, al limite dell'introspezione, una sorta di autoanalisi per il regista che ha scritto la sceneggiatura a quattro mani col figlio Tommaso: ed è un dettaglio non da poco, visto l'intento di raccontare un legame che passa di generazione un generazione, dove l'autore e personaggi si confrontano e si rispecchiano in una sorta di seduta di psicoanalisi. Un film che ambisce a raccontare di più di un semplice rapporto padre-figlio, la classica storia più volte raccontata di riconciliazione postuma tra i protagonisti, dove il figlio si riappropria del padre solo dopo averlo perso, sentendolo finalmente vicino ed entrando per la prima volta in contatto più di quanto non siano mai stati nella vita. Ma il riavvicinamento emotivo al padre in questo caso non corrisponde al risveglio, al riscatto o al superamento dei propri limiti emotivi da parte del figlio; anzi lo porta all'autodistruzione. Avati vuole portare la storia ad un livello più profondo, indagando sulla tipologia di genitore che fa gravare i suoi fallimenti sul figlio, un ragazzo d'oro che forse il padre non merita, depositario del ruolo ingrato di risarcire le frustrazioni della figura paterna, facendo per lui quello stesso sacrificio che il padre forse non avrebbe fatto. Un atto d'amore quindi, incondizionato e smisurato, con il figlio che per portarlo a termine arriva a diventare il padre fino ad una simbiosi anche fisica, fino ad affacciarsi e a scrutare nella sua follia e a rimanerne vittima con lucida consapevolezza, riuscendo però laddove lui aveva fallito. L'interrogativo che in fondo ci si pone è se sia meglio non aver avuto un padre piuttosto che averne uno che ti rovina la vita. Ad un certo punto Achille sembra essere un uomo che ha sofferto per non aver mai visto riconosciuto il suo talento, proprio come accade al figlio che improvvisamente si accorge che il padre è un incompreso come lui. Fino a quando la storia rimane sui binari più consueti della riconciliazione, paradossalmente per quanto monotona e già vista, sembra poter essere appena più convincente, salvo perdere colpi e coerenza man mano che ci si avvia verso la catarsi finale, che rinuncia all'assoluzione del padre e si concentra sul sacrificio incondizionato del figlio, che arriva repentino e senza un'adeguata preparazione che provi a rendere più credibile il parossismo. Nulla viene spiegato, né l'incipit (suicidio o incidente?), né se il padre fosse effettivamente un fallito o un incompreso, la natura della sua relazione con il personaggio della Stone, e soprattutto quanto della fragilità psichica del figlio é stata causata dalle sue carenze o dal suo ego frustrato. Spiegazioni che evidentemente il regista reputa inutili perché in fondo quello che gli interessa è raccontare un atto d'amore estremo e incondizionato. Come spesso capita quando l'argomento è così sentito, quando tra l'autore e il soggetto c'è una connessione così intima, a volte nascono opere tanto ricche di spunti quanto imperfette e scombinate, al punto di poter parlare di occasione sprecata. É il caso del film di Avati che nell'intento di andare oltre il potenziale emotivo di una storia di riscoperta di legami perduti, cerca senza riuscirci di far raggiungere allo spettatore un livello di connessione più profondo, rimanendo però intrappolato in superficie in una messa in scena fatta di situazioni e dialoghi quasi da fiction e in una sceneggiatura che trascura troppi passaggi, condizionando anche le performance degli attori sempre più spaesati. In questo senso, la presenza di Sharon Stone, doppiata da Jane Alexander, è in effetti quasi straniante rispetto al contesto, anche a causa della sceneggiatura che lascia parecchi dubbi intorno al suo personaggio, e finisce per ridursi ad una (sicuramente notevole) operazioni di marketing come uno dei tanti product placement (a proposito di fiction) presenti nel film. Una storia dal grande potenziale emotivo che non riesce a scavare a fondo e a colpire al cuore come vorrebbe, imbrigliata in una sceneggiatura incerta e incapace di restituire dal punto di vista filmico i contenuti e i temi che affronta.
Alessandro Antinori (Movieplayer.it)
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