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Mercoledì 03 Luglio 2024
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NOI CREDEVAMO
Drammatico/Storico
di Mario Martone
con Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Guido Caprino
170 minuti - Italia '10

Pugnace tentativo d'affresco antiretorico, kolossal autarchico dalla travagliata gestazione e libera rivisitazione del libro omonimo di Anna Banti, «Noi credevamo» fa una certa fatica a districarsi dalle polemiche che ne accompagnano l'uscita. Lo strano è, però, che la maggior parte di queste schermaglie extra-testuali sono alimentate proprio da Mario Martone, il regista e cosceneggiatore insieme a Giancarlo De Cataldo: prima d'interrogarsi sul fervore del racconto, sulla sua presa emotiva e spettacolare o sull'originalità delle soluzioni stilistiche adottate, lo spettatore rischia, in effetti, di doversi per forza confrontare con la conclamata carica eversiva dell'interpretazione, per così dire, martoniana del Risorgimento. Non sarà un peccato grave, ma di solito i grandi film producono questo tipo di riflessioni, anziché farsene precedere come se fossero altrettanti test d'ingresso. (per non dire autodafé cui far seguire l'abiura o la condanna degli eretici). Prudentemente ridotto rispetto alla versione in concorso all'ultima Mostra di Venezia, «Noi credevamo» intende rievocare in quattro atti ampi scorci di storia italiana preunitaria (1828-1862): attraverso le diverse vicissitudini, i viaggi avventurosi e le imprevedibili traiettorie del cuore e della mente di tre giovani cilentani affiliati alla Giovine Italia, Domenico, Angelo e Salvatore, gli episodi frammentari, i personaggi inventati o reali, gli eventi storici importanti e quelli trascurati tendono a stagliarsi nella fissità straniata e compassata di un cinema ispirato alla maniera neo-brechtiana dei Taviani. In estrema sintesi Salvatore sarà ucciso da Angelo che l'ha preso per una spia, mentre quest'ultimo, coinvolto nell'attentato di Felice Orsini contro Napoleone III, è destinato a finire sotto la ghigliottina; in quanto a Domenico, già ristretto nei carceri borbonici, vedrà l'entusiasmo suscitato dall'Unità d'Italia amaramente estinguersi davanti alle guerre fratricide sull'Aspromonte e ai massacri compiuti dall'esercito sabaudo ai danni delle popolazioni meridionali. Certo lontano dai procedimenti viscontiani (da «Senso» a «Il gattopardo») che mescolano il fattore storico con quello umano nel crogiuolo fiammeggiante dell'epica e del melodramma, Martone gioca la posta drammaturgica sulle scelte e le esclusioni: dei padri nobili del Risorgimento, emerge per esempio quasi solo Mazzini, al quale sono peraltro attribuite le discutibili stimmate del terrorista ante-litteram; di Garibaldi s'intravede in extremis solo la silhouette, circonfusa da un'ammiccante luce celestiale; Cavour risulta abrogato del tutto e Crispi è utilizzato per farne un topico esemplare del voltagabbana italico. Tutto bene, se dal complesso di storie, ricostruzioni e suggestioni non finisse per promanare un che di didascalico e d'impettito, da fiction tv: sia pure applicati e diligenti, i bravi attori funzionano non a caso come portaparola dell'autore, pedine di un teorema per immagini, figure sempre un tono «sopra» a un genuino afflato narrativo. Forse perché l'encomiabile sforzo compositivo ritorna sempre - come abbiamo detto - al doping del messaggio, all'ossessione del collegamento del presente col passato (e non viceversa) che include facili anacronismi (un fabbricato abusivo vista mare, vetri antiproiettile in prigione, un'insegna al neon parigina) per sottolineare al colto e all'inclita la continuità dei presunti «disastri» risorgimentali. A proposito dei quali è lecito che l'artista abbia agito con l'accetta; senza poter pretendere, peraltro, che passino per nuove le critiche che tutte le culture politiche italiane del Novecento - tradizionalisti neoborbonici e ultrà paleomarxisti inclusi - hanno portato alla nascita del nostro stato nazionale.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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