Drammatico di Pupi Avati con Gianni Cavina, Serena Grandi, Fabrizio Bentivoglio, Lino Capolicchio, Francesca Neri 98 minuti - Italia '10
Si può girare una storia tristissima senza deprimere lo spettatore? Evidentemente sì, se il fine è stato quello di raggiungere uno specifico equilibrio tra il tono stilistico e la sostanza drammaturgica. Pupi Avati, del resto, va considerato un regista giovane perché più della sua carta d'identità fa fede la filmografia che ha appena superato la quarantina (di titoli): in «Una sconfinata giovinezza» lo spettatore potrà ritrovare gli appigli consueti, andare sul sicuro, insomma, immergendosi nel microcosmo emiliano dell'eterno ritorno memoriale; ma, nello stesso tempo, ritrovarsi faccia a faccia con i motivi più aspri, le riflessioni più sconsolate, le ipotesi meno gratificanti di cui lo stesso itinerario audiovisivo si è nutrito più o meno in sottotraccia. Rivelando che il vissuto avatiano s'intreccia questa volta con la spaventosa patologia dell'Alzheimer, anticipiamo, infatti, solo una parte dell'impianto che fa muovere gli eventi e i personaggi e via via li dirama in altre direzioni e predispone a letture differenti. Lo testimonia bene il fatto che il finale coincida in modo circolare con l'inizio: conoscendo già "tutto", si tratterà di farsi largo tra quelle evocative nebbie appenniniche e iniziare a separare nel flusso narrativo le offese portate dal tempo da quelle inferte a corpo e mente. Il giornalista sportivo Lino Settembre e la moglie docente universitaria Chicca godono da venticinque anni di un'intesa perfetta, per nulla incrinata e anzi rinsaldata dalla mancanza di figli. Quando i sinistri segnali della demenza degenerativa s'insinuano nella bella casa romana, s'incrementa il reticolo dei flashback che allontanano lo sfortunato Lino da una realtà e lo ricollocano in un'altra: la regressione nell'infanzia e nell'adolescenza del malato porta con sé, peraltro, non solo la cancellazione del presente nel passato con il relativo e impietoso raffronto tra lo stupore, la suspense, il fanatismo dell'età dell'emozione e il disincanto, la costrizione e l'opportunismo dell'età della rimozione, ma anche la volontaria e temeraria trasformazione dell'amore di Chicca da coniugale a materno. La sfida di Avati sta in questo gioco che rasenta l'enfasi per dimostrasi infine asciutto e struggente di flash involontari eppure inevitabili- accentuazione tragica e pessimista delle intermittenze proustiane- ovviamente in gran parte affidato alle prove davvero ardue dei protagonisti. Fabrizio Bentivoglio è un Settembre (che, guarda caso, è il titolo di uno dei più bergmaniani film di Woody Allen) in grado di superare di slancio la facile immedesimazione da documentario medico e Francesca Neri incanta per come dà spessore alle sfumature più oscure e destabilizzanti del copione; ma spiccano nell'armonia d'insieme anche gli assoli di rodati interpreti dell'Avati-touch come Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Erica Blanc e Serena Grandi.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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