Drammatico di Kim Ki-duk con Chang Chen, Park Ji-a, Ha Jung-woo 80 minuti - Corea del Sud 2007
Kim Ki-duk continua ad essere l'autore più rappresentativo del cinema che si fa nella Corea del Sud. Da qualche tempo, però, si è messo a raccontarci delle storie, a dir poco curiose, che convincono solo per lo stile, sempre rigoroso e ispirato, con cui le risolve. L'anno scorso, con Time, ci aveva detto di due coniugi che, per rinsaldare il loro amore, prima l'una, poi l'altro, avevano fatto ricorso alla chirurgia plastica per mutare sembianze e personalità. Il tema, anche oggi, è l'amore, in termini tuttavia piuttosto difficili da accostarsi da un punto di vista narrativo. Si comincia in un carcere. Un detenuto, condannato a morte per aver ucciso la moglie e due figli, ci dicono che abbia tentato varie volte il suicidio, invano tenuto calmo dalle attenzioni un po' ambigue di un compagno di cella più giovane di lui. Su un altro versante ci si dice di una giovane donna dedita alla scultura disamorata del marito, da cui pure ha avuto una bambina, perché si sa tradita con un'altra. Dalla televisione apprende dei tentati suicidi del condannato a morte e non solo decide di andare a conoscerlo, ma presto intrattiene con lui uno strano rapporto che prima consiste nel ricreargli via via attorno, nella sala delle visite, le varie stagioni che commenta con canzoni appropriate, e in seguito cede ad impeti erotici che un dirigente del carcere, osservandoli a lungo da una telecamera, interrompe solo quando stanno per arrivare a compimento. Ma interviene il marito, pronto a lasciare l'amante per riconquistare la moglie. Metterà fine a quel rapporto in carcere, provocando nel detenuto un altro tentativo di suicidio e, con la donna e la bambina, ritroverà l'armonia di prima. L'altro sappiamo che è ormai prossimo alla esecuzione... Si può stare al gioco, appunto per i modi con cui Kim Ki-duk, svolgendolo, ce lo propone visivamente. L'oscurità del carcere, all'inizio, in parallelo con il grigiore dell'ambiente familiare in cui la donna si muove. Poi quelle colorite rappresentazioni delle varie stagioni di fronte al detenuto sempre più conquistato, anche per le canzoni da cui sono accompagnate, quindi, per chiudere, la buia rassegnazione di lui nella sua cella e fuori, nel biancore di una neve in cui tutto splende, la pacificazione di quel trio familiare. In cifre delicate e sospese, senza che i dialoghi, come in quasi tutta la vicenda, intervengono a dire di più di quanto le immagini, dall'interno, suggeriscono. Un esperimento. Riuscito però solo in parte. Anche se lo sostiene un linguaggio meditato e sottile.
Gian Luigi Rondi (Il Tempo)
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