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LE FERIE DI LICU
Documentario
di Vittorio Moroni
con Giulia Di Quilio, Moazzem Hossain, Fancy Khanam
93 minuti - Italia 2006

Sono tre i protagonisti di Le ferie di Licu (Italia, 2007). Al centro del secondo film del trentaseienne Vittorio Moroni non c'è solo Licu (Md Moazzem Hossain, nella parte di se stesso). Accanto a lui c'è la sua Fancy (Fancy Khanam), colma d'una bellezza quieta e aggraziata. E con loro c'è però anche la macchina da presa, che li ha seguiti per più di due anni (poi condensati in 93 minuti), in parte come occhio neutro e oggettivo, e in parte come presenza attiva, quasi come compagna di viaggio. E Licu, per altro, il primo che ci si mostri. Lo fa con una naturale leggerezza che vince del tutto l'artificio del cinema (certo anche con l'aiuto dell'ottimo montaggio di Marco Piccarreda, che è anche cosceneggiatore). Non recita, Licu. Ma neppure sta nell'inquadratura come puro elemento del racconto. Fin dalla prima sequenza, il trentenne bengalese immigrato a Roma fa del film di Moroni il suo film. Mentre la vicenda si sviluppa, ci è difficile decidere dove termini la vita "reale" che il cinema documenta e dove, invece, inizi quella che il cinema influenza e in qualche modo inventa. Moroni e i suoi collaboratori sono stati incuriositi, nel senso migliore, da Licu, e hanno deciso di osservarne la storia. D'altra parte, già solo per il fatto che la osservano, quella storia si modifica La cinepresa s'aggiunge a quello che, in precedenza, capitava che Licu vivesse, giorno dopo giorno, e diventa anch'essa parte della sua quotidianità. Alla fine, il documentario diventa un film vero e proprio: un racconto che senza il cinema non esisterebbe, e che tuttavia e per paradosso coincide con la vita "vera" del suo protagonista. Non c'è mai preoccupazione didascalica, in Le ferie di Licu. Non c'è niente che Moroni debba o pretenda dire dell'immigrato Licu. Davanti ai suoi occhi non c'è un immigrato, appunto, ma un individuo nella sua irripetibile ricchezza umana. Sono le sue emozioni che lo emozionano, e che perciò emozionano anche noi. Quando il bengalese telefona al suo padrone, per chiedergli i due mesi di ferie necessari a tornare in patria e sposarsi, una prospettiva meno attenta alla singolarità avrebbe messo in risalto soprattutto l'ingiustizia che sta dietro questa richiesta. Licu non fa ferie da due anni, e il suo padrone comunque non gliele pagherà. Tutto questo in platea veniamo a sapere, ascoltando la telefonata. Ma lo veniamo a sapere come "accessorio" rispetto al fatto davvero importante. E, il fatto davvero importante è l'entusiasmo di Licu, la sua decisione coraggiosa di partire in ogni caso. Moroni non fa prediche, nemmeno prediche che pure sarebbero sacrosante. Al contrario, si lascia incuriosire dal suo protagonista, prende parte alla sua gioia, e alla fatica che quella gioia gli costa. Quando poi Licu arriva in Bangladesh, tra i suoi, nel film entra direttamente Fancy. Già l'abbiamo vista in fotografia, e già ci sembra d'avere imparato a conoscerla attraverso Licu, attraverso la sua gioia e la sua fatica. Perciò, condividiamo il suo disappunto di fronte alle difficoltà sollevate dai parenti di lei Insomma, Fancy è già protagonista, per lui come per noi. E lo è con la stessa leggerezza e la stessa naturalità di Licu. Più timida, più giovane, ma ugualmente sorridente, anche lei non soffre l'artificio del cinema. E nemmeno lo soffrono le loro due famiglie. Moroni ottiene una sorprendente vicinanza d'osservazione, mantenendo un altrettanto sorprendente rispetto delle distanze. La macchina da presa non invade il mondo dei due giovani, ma sa raccontarcelo dall'interno. Si comporta come un invitato attento e rispettoso, e proprio questa sua discrezione curiosa ne fa il terzo protagonista del film. Non a caso, appena arrivato al suo villaggio, Licu si volge verso la macchina da presa e la presenta ai suoi. Loro mi accompagnano dall'Italia, dice pressappoco, indicando gli autori e la troupe (che restano celati ai nostri occhi). E bene ha fatto il montaggio a mantenere questa inquadratura breve. Non ricordiamo d'avere visto un "disvelamento" dell'obbiettivo tanto spontaneo e tanto felicemente narrativo. Tornato in Italia, il cinema accompagna i primi mesi della vita insieme di Licu e Fancy. La cerimonia è lontana, e solo ne resta un piccolo film girato da un "regista di matrimoni" bengalese. Per il resto, tutto è incerto e aperto al futuro: la preoccupazione molto maschile di lui, che immagina di dovere e di poter guidare la vita di lei, e la dolcezza piena d'attesa di lei, che lo attende in casa sbirciando il nuovo mondo da una finestra. Tutto può accadere, appunto. E noi, con un cenno di rimpianto, ci sorprendiamo a pensare che nessuna macchina da presa ce lo racconterà.
Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore)
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