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TIME
Drammatico
di Kim Ki-duk
con Sung Hyun-ah, Ha Jung-woo, Park Ji-yun
97 minuti - Corea del Sud 2006

Amore come mutilazione e cambiamento: interiore ed esteriore. Questo sembra voler dire con la sua ultima opera il regista coreano a un anno di distanza da L'arco. Ancora una storia di sentimenti e relazioni. E sebbene non ci siano più bambine e pescatori a fare da pretesto, la visione che Kim Ki-duk propone dell'amore è sempre estrema e carica di crudeltà. Diversamente dai film precedenti questa volta la violenza non è perpetrata ai danni altrui ma è quella che una donna, Seh-hee (Sung Hyun-ah), si autoinfligge facendo ricorso alla chirurgia plastica nel tentativo di preservare la propria storia con Ji-woo (Ha Jung-woo) dallo scorrere del tempo e dall'insinuarsi, quasi inevitabile, di noia e abitudine. Un intervento totale, doloroso oltre ogni dire e lungo sei mesi, non per diventare più bella, ma solo per trasformarsi in altro da sé e smetterla di imporre il proprio volto sempre uguale al suo compagno, che già sembra rivolgere alle altre donne più attenzioni del dovuto. Il regista approfitta di uno spunto di attualità - il boom della chirurgia pret a porter nei paesi orientali - per redigere una fenomelogia dell'amore deviato, con tutto il suo meschino coacervo di gelosia, possesso, insicurezza. Quando Seh-hee sparisce senza alcuna spiegazione, gettando nella disperazione il proprio uomo, il suo piano in parte sembra già compiersi facendo appello più alla vendetta rancorosa di una donna che non si sente amata, che alla devozione di una donna che ama. L'effetto che distrugge la causa. Il grottesco si compie quando Seh-hee torna sulla scena, sotto nuove e mentite spoglie e, dopo essere riuscita a far innamorare di nuovo di sé Ji-woo, si ritrova in competizione con il suo stesso fantasma. Follemente compiaciuta e disperata. Amore come illusione. Assenza come unica vera formalina dell'amore. La rivelazione della vera identità a questo punto è inevitabile e Kim Ki-duk fa indossare alla protagonista una maschera che ritrae il suo volto originario per confessare, e quasi confessarsi, in una scena che pur nella disperazione trova dei momenti di comicità. Un elemento, questo, sempre giocato al limite ma che in questo film torna in modo decisamente più frequente rispetto alle opere precedenti. Una novità nel modus operandi del regista, e non l'unica: ai celebri silenzi questa volta si sostituiscono dialoghi più frequenti e serrati; al numero limitato di personaggi si aggiungono tutta una serie di personaggi secondari, quasi macchiettistici. Come gli amici del protagonista: una banda di decelebrati ubriaconi che richiamano certa commedia orientale. Una scelta che sembra votata al raggiungimento di una maggiore comprensibilità a favore di un pubblico sempre più ampio, ma che non inficia in alcun modo la poetica sempre personale e originale del coreano. Nella struttura circolare del film - che trova collegati inizio e fine in un efficace gioco di specchi a richiamare l'universalità delle dinamiche sentimentali - alla decisione di Seh-hee di andare sotto i ferri fa seguito quella di Ji-woo che a sua volta, sconvolto dalla verità e dall'inganno, sceglie di fare altrettanto eclissandosi per cinque mesi prima di far indovinare il suo volto sconosciuto. Tra la folla, nei bar, assistiamo alla ricerca disperata di un indizio che riveli alla donna le nuove fattezze del suo uomo. Si sorride quando si fa abbordare da chiunque, ormai alienata, e si sorride amaramente quando va a letto con qualcuno per poi scoprire di essersi sbagliata. Ma è nella follia e nella tragedia che il regista decide di far naufragare la sua caccia ai fantasmi. Al solito, Kim Ki-duk firma regia, sceneggiatura e montaggio dell'opera, rivelando una padronanza del linguaggio cinematografico ormai impeccabile, che qui si traduce in uno spietato ritratto delle estreme conseguenze dell'amore e di come queste siano capaci di uccidere l'amore stesso.
Claudia Mangano (Il Mucchio Selvaggio)
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