Drammatico di Brian De Palma con Josh Hartnett, Scarlett Johansson, Hilary Swank 120 minuti - USA 2006
Che fine hanno fatto le donne fatali, quelle che intorpidivano gli uomini sino a farli schiavi, e bastava uno sguardo nero di mistero, un anello di fumo soffiato lentamente da una sigaretta nel lungo bocchino, un esasperante silenzio carico di promesse?
Cancellate dalla realtà da quando le pari opportunità hanno tolto loro ogni potere segreto ma anche ogni necessità di scocciarsi con queste sceneggiate, queste signore pericolose si sono rifugiate nel cinema ma anche qui solo in quei film che evocano l'epoca d'oro del loro imperio funesto, gli anni 40, 50 del noir americano, dei romanzi di Chandler e Cain, di certi film come La fiamma del peccato o Il postino suona sempre due volte.
Proprio i film e gli scrittori che il regista Brian De Palma ama da sempre, figuriamoci il piacere di poterli in qualche modo emulare in questo suo ultimo film, The black Dahlia, che ha inaugurato ieri la 63esima Mostra del cinema, una prima mondiale assoluta, quindi con frotte di giornalisti stranieri a inseguire sia il regista che James Ellroy, il cupo autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto quasi riga per riga, e soprattutto gli attori presenti, la graziosa Scarlett Johansson, una giovanissima fatale del tipo domestico e i suoi due innamorati del film, Aaron Eckhart e Josh Hartnett (anche nella vita, pare), giovanotti robusti che hanno imparato in un baleno a portare il cappello alla Robert Mitchum, anche nudi a letto con amante (nel caso di Hartnett). Non è qui la fatale di tipo depravato, quindi la più interessante, cioè Hilary Swank, maestra, nel film, di voce roca e ambiguità lesbico-incestuose. «Il cadavere si presenta in due metà, sezionato all'altezza dell'ombelico. Metà superiore:la testa presenta massicce depressioni e fratture del cranio, i tratti del viso sono deformati da ecchimosi estese, ematomi ed edemi.
La cartilagine nasale è fuori sede. Una lacerazione si diparte da entrambi i lati della bocca...Così il medico del romanzo e quello del film descrivono lo stato macabro del cadavere della Dalia Nera, con un seno reciso, le interiora rimosse, ma solo alla fine del film s'intravederà lo scempio, in un lampo simile a un'allucinazione così veloce da proteggere lo spettatore da ogni turbamento.
Si sa che Ellroy per il suo romanzo pubblicato nel 1987, s'ispirò allo spaventoso omicidio avvenuto quarant'anni prima, di un'aspirante attricetta che viveva di espedienti nell'inferno di Hollywood e si chiamava Elizabeth Short: il caso non fu mai risolto, e tuttora fa parte di quella mitologia americana che privilegia i poliziotti, i gangster, gli impermeabili alla Bogart, le fanciulla assassinate e le donne fatali. Per Brian De Palma, specialista di culto di storie insanguinate (Vestito per uccidere, Omicidio a luci rosse, Omicidio in diretta, ecc.) «portare sullo schermo questa storia ha significato tornare a quel cinema meraviglioso che veniva considerato di serie B, girato con pochi soldi ma che poteva Servirsi di grandi attori che essendo sotto contratto e stipendiati, dovevano accettare tutto». Questo,come altri film sugli anni '40, è girato in color marroncino, per fare antico senza dover usare il - bianco e nero che è anatema per i distributori: abbondano fili di perle su golfini d'angora, Johansson è pettinata alla Lana Turner e ha una bellissima bocca sapiente; arriva un momento in cui è bene avere un taccuino per tener conto del labirinti della storia e della foresta dei suoi possibili colpevoli: pare che sia uno e invece è l'altro, a catena, e nessuno è quello che sembra, e alla fine non c'è un personaggio, buono o cattivo, dalla parte della giustizia o del crimine, che non sia alla fine assassino, puttana, ladro, sfruttatore, lenone, imbroglione, pazza, ninfomane, drogata, ricattatore, ecc. Dice il regista: «Il cadavere sfigurato di quella giovane donna diventa un'ossessione per i protagonisti, condiziona le loro vite, le fa precipitare nell'abiezione. L'unica innocente è proprio la Dalia Nera, i cui sogni si sono infranti nella sofferenza e nella morte». Musica esagerata, Los Angeles ricostruita in Bulgaria da Dante Ferretti, con salotti di lusso e fetidi vicoli sempre marroni, a indicare il colore del fato. Momento entusiasmante: macella sulle scale di un elegante palazzo, mentre nel rumoroso trambusto si materializza un'ombra con cappellaccio e coltello che pare Diabolik, mentre due che tentavano di strozzarsi precipitano avvinghiati a testa in giù con rumore di ossa fracassate in una fontana zampillante. Momento esilarante: pranzo in casa della ricca famiglia corrotta, con figliolina che fa disegni porno e mamma raffinata e via di testa che bestemmia, insulta, barcolla.
Momento commovente: i provini in bianco e nero (in realtà inesistenti) della Dalia Nera (Mia Kirshner, delicata e bella), che sogna di essere scelta per un film, e piange mentre si racconta, e non sa recitare, e viene presa in giro da chi sta riprendendola, con la voce dello stesso De Palma. Fa anche le boccacce infastidita in un filmino porno mentre la compagna le fa delle cose da dietro. E i poliziotti restano incantati. Natalia Aspesi (La Repubblica) |