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LA CORTE
Commedia
di Christian Vincent
con Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen, Eva Lallier, Miss Ming, Berenice Sand
98 minuti - Francia 2015

L'hermine, ovvero l'ermellino: la stola di pelliccia indossata come una divisa dal giudice Xavier Racine, Presidente di Corte d'Assise, come lui stesso tiene a precisare ogni qual volta qualcuno gli si rivolge con l'appellativo "Signor giudice". Un uomo burbero e lunatico, o quantomeno così lo definiscono, con schietta malignità, i suoi colleghi della Corte d'Assise, i quali lo hanno soprannominato "Doppia Cifra" a causa dell'entità delle pene da lui inflitte. Eppure, il giudice Racine non è esattamente come lo descrivono. È un uomo solitario e umorale, è vero, ma dietro la sua facciata di rigore e inflessibilità nasconde anche diverse insicurezze: ad esempio, si affanna a giustificare le sue innocue passeggiate notturne perché inorridisce al pensiero che i colleghi possano considerarlo un frequentatore di prostitute, e al momento di istruire le sue giurie si premura sempre di mettere in evidenza i diritti degli imputati, da ritenere innocenti fino a prova contraria. A prestare il volto al giudice Racine, protagonista assoluto de La corte, è uno degli interpreti più raffinati e talentuosi del cinema francese: quel Fabrice Luchini scoperto e lanciato poco più che ventenne da Eric Rohmer e diventato nel corso degli anni uno dei volti di cui noi francofili non vorremmo mai fare a meno. Un attore dal carisma impagabile, al quale bastano quelle sue tipiche occhiate un po' perplesse, le inflessioni della voce e la semplicità di piccoli gesti quotidiani per farci aprire al sorriso o per trasmetterci la curiosità, l'amarezza o il senso di aspettativa che Racine sperimenta di scena in scena. A firmare la sceneggiatura e la regia del film è invece Christian Vincent, regista molto apprezzato in patria per titoli come La timida, il suo pluripremiato lungometraggio d'esordio del 1990 (sempre con Luchini), e La séparation con Isabelle Huppert; un autore in grado di contrassegnare i propri copioni grazie all'abilissimo connubio fra minimalismo, ironia e studio dei caratteri. Elementi che ritroviamo puntualmente anche ne La corte, film che si apre con l'istruzione di un processo penale legato a una terribile vicenda: l'omicidio di una bambina in tenerissima età, picchiata fino alla morte fra le pareti domestiche, per il quale è sotto accusa il padre, che tuttavia si dichiara innocente. La prima fase del processo consiste nella selezione dei membri della giuria popolare: fra questi, il giudice Racine estrae a sorte il nome di Birgit Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), una donna che Xavier aveva conosciuto sei anni prima. L'inaspettato incontro con Birgit è fonte, per Racine, di un profondo turbamento; nel frattempo il processo entra nel vivo, i testimoni si succedono l'un l'altro sul banco del tribunale e i giurati iniziano a dibattere del caso, finendo però anche per fare accenni alle proprie vite private. Ma La corte, a differenza di quanto possa sembrare a prima vista, non è un vero dramma giudiziario, così come il processo presieduto da Racine non è il reale nucleo del film. Christian Vincent, al contrario, smonta i meccanismi del tipico courtroom movie servendosi del processo come un puro pretesto per parlare di tutt'altro: dei personaggi, dei loro rimpianti, dell'ineffabile malinconia del giudice Racine e del silenzioso bisogno di un contatto umano, di aggrapparsi a un sentimento timidamente pronto a farsi strada nel suo cuore. In tale prospettiva, il regista adotta un approccio analogo a quello del suo film precedente, la fortunata pellicola del 2012 La cuoca del presidente, interpretata da Catherine Frot: far leva su un registro narrativo minimalista al massimo grado, che a uno sguardo superficiale parrebbe non raccontare nulla di davvero rilevante e invece dice - ma soprattutto suggerisce - tantissimo, con la salutare levità di una graziosa comédie humaine. E giusto a proposito di "commedia", alla figlia adolescente di Birgit è affidata, in prossimità dell'epilogo, una battuta chiave del film: quella mediante la quale la ragazza paragona il processo in atto ad una rappresentazione teatrale, con tanto di costumi (le toghe e l'ermellino, appunto), di rituali prefissati e di attori impegnati a calarsi in una parte. E così, il tribunale stesso si propone come una sorta di theatrum mundi: l'ideale palcoscenico su cui la vita stessa è oggetto di costante imitazione. Ed è su quel palcoscenico che, nella sequenza più toccante del film, il giudice Racine vedrà riaccendersi la speranza di recuperare un amore lasciato in sospeso, rinsaldando la propria - e la nostra - fiducia nel valore inestimabile dei rapporti umani: quei rapporti preziosi e irrinunciabili, a dispetto di tutte le loro imperfezioni.
Stefano Lo Verme (Movieplayer.it)
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