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IL NOME DEL FIGLIO
Commedia
di Francesca Archibugi
con Alessandro Gassman, Micaela Ramazzotti, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo
94 minuti - Italia 2015

Sono passati sei anni da Questione di cuore e apparentemente ci sono volute tutta la perseveranza e la testardaggine di Fabrizio Donvito, Marco Cohen e Benedetto Habib di Indiana Production, nonché la spinta e l'affetto di Paolo Virzì, "il mio fratellone acquisito" come lo chiama Francesca Archibugi, per "farmi alzare dal divano e rimettere al lavoro". Amici ancora prima che produttori, "perché gli affetti sono importanti e illuminano anche i momenti più bui". E di affetti in fondo si parla in questo Il nome del figlio, molto più di quanto non si faccia nell'originale francese Cena tra amici a cui si ispira. Sempre materna ed empatica coi suoi attori, la Archibugi, insieme allo sceneggiatore Francesco Piccolo, si è lasciata evidentemente convincere alla fine a trasformare questa fortunata commedia d'oltralpe in qualcosa che sembra scritto da lei: un film di attori per glia attori, personaggi in cerca di identità tra presente e passato, con uno sguardo al futuro. Paolo (Alessandro Gassman), brillante e un po' smargiasso agente immobiliare, e la sua compagna Simona (Micaela Ramazzotti), bella e un po' svampita autrice di un libro di facile consumo che diventa il caso letterario dell'anno; sono a cena a casa di Betta (Valeria Golino), sorella di Paolo, e Sandro (Luigi Lo Cascio), insegnante remissiva lei, scrittore intellettuale e twitterista frustrato lui. Insieme a loro l'amico di sempre, il musicista spiantato Claudio (Rocco Papaleo): l'annuncio del nome che Paolo e Simona hanno scelto per il figlio getterà nello scompiglio i commensali, dando il via ad una dicussione che sconvolgerà le certezze di tutti. Più che il remake di Cena tra amici, Il nome del figlio riparte dalla pièce teatrale Le prénom di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, che Archibugi e Piccolo hanno trasposto e riadattato ad un contesto tipicamente nostrano. Infatti nonostante la somiglianza dei twist e delle situazioni narrative col film francese, portato sullo schermo nel 2012 dalla stessa coppia di autori della pièce, questo della regista romana allo stesso tempo se ne discosta soprattutto per quello che riguarda la costruzione dei personaggi. Non solo per le loro storie, per quello che rappresentano, archetipi di varie tipologie di individui italici che ben conosciamo, a cui assomigliamo o che addirittura siamo senza saperlo, ma anche per la particolare empatia che la regista stabilisce con essi, in fondo per la grande tenerezza con cui li guarda e li racconta, anche quando sembra voler parlar male di loro. Cambiano dunque il contesto sociopolitico e il nome della discordia, che serve da grimaldello emotivo per far deflagrare tutto quello che ognuno dei cinque cela dentro di se; rimane la drammaturgia di fondo del testo letterario, semplicemente migrata in una situazione a noi più familiare. Ma mentre i protagonisti di Cena tra amici e le loro conversazioni rappresentano dei caratteri più universali (anche per questo le commedie francesi in generale rispetto a quelle nostrane sono sempre più facilmente esportabili), quelli de Il nome del figlio sono inevitabilmente più legati e ancorati all'ambiente e alle loro storie: tra frustrazioni, sogni infranti e nostalgie, illusi e disillusi, "sfottuti dolcemente" come dice la regista, quei personaggi siamo noi. Francesca Archibugi non sembra particolarmente interessata alle dinamiche del classico film da interni di impianto teatrale o alla cosiddetta recitazione da camera, per cui sembra lievemente affrettata la definizione di "Carnage all'italiana" che già circola, per quanto il paragone sia nobile e meritato. Pur condividendo il tono sempre in bilico tra dramma e commedia, la teatralità qui affiora solo a momenti, i dialoghi vanno oltre l'esercizio di stile e c'è un'indagine dell'esistenza dei personaggi che affonda le radici nel passato: a differenza del film di Roman Polanski dove i protagonisti non si conoscono, qui i cinque amici condividono un passato mostrato in numerosi flashback, che non solo pesa enormemente sul bilancio del presente, ma partendo da lì si prova anche gettare un sguardo al futuro e a chiudere il cerchio in una speranza di cambiamento. Perché "di tempo per cambiare ce n'è", come canta Lucio Dalla in Telefonami tra vent'anni. Il film è una vera e propria partitura musicale, dove ognuno dei protagonisti ha il suo assolo e il suo momento. Un mix di improvvisazione e tecnica con cinque attori ispiratissimi, nel cui corpo e cuore la Archibugi ha letteralmente immerso i cinque personaggi: e gli attori insieme alla scrittura determinano l'ottima riuscita dell'intero film come spesso succede quando si fa un cinema appunto di personaggi ancora prima che di situazioni. Tutti ben tratteggiati, con una predilezione per quelli femminili che emergono per forza e carattere, la remissiva Bettina delle sempre straordinaria Valeria Golino che ha il momento migliore del film quando lascia libero sfogo ai suoi rancori e le sue rabbie, e la tigre di Casal Palocco Simona di una splendida Micaela Ramazzotti, la cui empatia con la Archibugi va al di là di quella che si instaura tra regista e attore. E la scena finale lo dimostra ampiamente e suscita autentica emozione così come autentiche sono le immagini.
Alessandro Antinori (Movieplayer.it)
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