Commedia di Michael Patrick King con Kim Cattrall, Kristin Davis, Cynthia Nixon, Chris Noth, Sarah Jessica Parker 146 minuti - USA 2010
Carrie Bradshaw si è sposata, ha tradito la moda per l’arredamento, ha escluso l’idea di un figlio in totale accordo con Big, ha pubblicato un libro, eppure non è felice: nella sua vita non c’è più lo “scintillio” di una volta. Charlotte, che di tutto fece per avere un bambino, ora ne ha due, bellissime, opportunamente viziate e inaspettatamente faticose. Miranda è un bravo avvocato ma è una donna e il suo capo uomo si permette di zittirla, mandandola su tutte le furie. Samantha è in menopausa e per questo schiava di creme costosissime e ormoni in pillole.
Eh, questi sì che son problemi. E potremmo fermarci qui. Il secondo capitolo del “gonfiaggio” in scala cinematografica del serial Sex and the City riesce a deludere anche chi si affacciava senza aspettative. Snaturato di un senso, non foss’altro perché snaturato in toto degli elementi che lo costruivano (la città del titolo, per esempio, o la “quest” dell’uomo ideale, che da sola ha alimentato sei stagioni televisive) questo secondo e falso passo poggia sul niente e nel vuoto, coerentemente, precipita.
I messaggi di emancipazione femminile e lo spirito festoso, che avevano fatto l’interesse e la fortuna di Sarah Jessica Parker e socie, lasciano il posto ad un’inquietante cultura del condono, della ricchezza come risarcimento e rimedio, della sobrietà come deprimente per definizione. Il risultato è lo sciogliersi al sole dell’idea stessa di eleganza. Le inquadrature si fanno allora volgarotte e non si contano più di un paio di battute riuscite in due ore e mezza di brodo indigesto.
Le ambiguità ideologiche, poi, non si finirebbero di esplorare, e questa volta senza guadagno alcuno: dalla protagonista che ritrova se stessa solo nella fotografia del passaporto lasciato al banco delle scarpe, alla scena in cui le quattro americane si esaltano perché anche le donne arabe indossano l’ultima collezione francese sotto il burqa, non è mai dell’esistenza di un linguaggio universale e transculturale della moda che si sta trattando, bensì di come le quattro signore non facciano che usare gli altri come specchi.
E questo sì che è un problema, per il film: dei personaggi che non cambiano di un millimetro, che potrebbero andarsene ad Abu Dhabi come in Groenlandia ma non vedrebbero che loro stessi, immutabili, imbalsamati. Se lo scopo era quello di far sì che la spettatrice comune si sentisse rappresentata, si conti l’ennesimo buco nell’acqua: in questo tripudio di autoreferenzialità, non c’è certo lo spazio.
Marianna Cappi (MyMovies.it)
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