Documentario di Michelangelo Frammartino 88 minuti - Italia, Germania, Svizzera 2010
Quello di Michelangelo Frammartino è un nuovo, piccolo caso del nostro mondo cinematografico. Lui vive a Milano, una città che deve parergli un po' estranea anche se vi ha studiato cinema, lavorato nel campo delle installazioni interattive proiettate in video, insegnato nelle scuole, diretto numerosi documentari e nel 2003 Il dono , lungometraggio lodato in diversi festival. Questo Le quattro volte è un film quasi muto: non ci sono dialoghi ma suoni (i carbonai che battono la pala sul terriccio che copre il legname da cui si ricava la carbonella, il belato delle capre, il soffio del vento, le voci della natura). Frammartino pensa che rappresenti la traduzione per immagini di una testimonianza di scuola pitagorica dove si immagina un legame stretto tra mondo minerale, vegetale, animale e l'umano, un ciclo che continua e continuerà nel tempo.
Il suo film non ha propriamente una trama. Comincia con dei carbonai che preparano un monticello di terra unita a paglia dove si creava quel carbone che un tempo serviva a riscaldare, sistemato in bacili di rame sopra un letto di cenere, le case contadine. Queste immagini assai suggestive testimoniano l'arcaica bellezza del film che spesso si avvale di inquadrature quasi ferme. Frammartino ci porta nella terra dei suoi avi, la Calabria, nei luoghi dove da ragazzo passava le vacanze. Gli appaiono ancora posti dove i miti e le credenze ancestrali tornano a farsi vivi e riti antichi assumono uno spessore inimmaginabile altrove. Il vecchio pecoraio che vediamo nel primo frammento del film crede che, bevendo la polvere raccolta in chiesa, riesca ad attenuare la tosse che lo perseguita e va portandolo alla morte. Quando perde il pacchetto che la conserva si dispera, di notte batte alla porta della canonica e della chiesa, forse l'unica costruzione imponente in un posto di torri, tetti, cortili sminuzzati e ingombrati di cose buttate via. Un luogo 'lontano' come non ce ne sono più neppure nel profondo Sud, un luogo che pare deserto con le strade in salita, una porta antica. Il pietrame dovunque, le scale strettissime dove difficile è anche portare giù una bara, quella con il corpo del vecchio pastore e si aggira un cane sempre in movimento così mobile e intelligente che a Cannes, dove Le quattro volte è stato proiettato fuori concorso, ha avuto ampi riconoscimenti. La morte dell'anziano pastore ci conduce nel mezzo del mondo animale qui rappresentato dalle capre che al mattino sono portate al pascolo. Sono animali bellissimi, giocosi. Tra le scene va segnalata la nascita dell'agnellino, la sua fatica ad alzarsi in piedi, l'aiuto che gli presta la madre e infine la fatica nel seguire il gregge alla sua prima uscita. L'agnellino si perde. Vaga nei boschi. Si accuccia nel terreno. E la natura muta. La neve imbianca il paesaggio, stento con erbe sottili, amare. Un'altissima pianta viene tagliata per farsi albero della cuccagna dove salgono o salivano i ragazzi di una volta per impadronirsi di un salame o di una pentola.
Non vi sono personaggi veri e propri nel film di Frammartino. L'unico, se si vuole, è la cinepresa. È la macchina da presa a scoprire la gente che abita un paese che ci pareva abbandonato. Essa a volte inquadra due azioni. In una si vede il vecchio che sale la strada in salita e dall'altro lato un camioncino dove scaricano della legna. In una seconda sequenza dalla prospettiva del recinto vediamo tre personaggi: un donna con una striscia di panno, un prete e un ragazzo che alza una croce. Nel film di Sammartino scorgiamo due processioni. Una ricorda il supplizio di Cristo, l'altra una festa meno definita. Siamo davanti a una curiosità per la religiosità popolare che potrà avere sviluppo nella poetica del regista che con autorità rivela una personalità insolita, esprime una voce assente nel cinema italiano. Il suo film merita di essere visto con attenzione.
Francesco Bolzoni (Avvenire)
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