Drammatico di Daniele Luchetti con Elio Germano, Raoul Bova, Giorgio Colangeli, Stefania Montorsi, Isabella Ragonese, Luca Zingaretti 100 minuti - Italia 2010
Elio Germano, diventato celebre presso le persone che del cinema di solito se ne sbattono, ha dichiarato a Cannes di dedicare il premio di migliore attore ex aequo agli italiani che sono molto migliori della loro classe dirigente (ma quale, quella di sempre o quella degli ultimi 5, 10, 15 anni? E solo di quella nazionale o anche di quella regionale o municipale, metti della Campania come della Puglia, del Piemonte come della Toscana?). Intanto in «La nostra vita» interpreta con partecipata veemenza il ruolo di un italiano non proprio esemplare, portatore di comportamenti equivoci e pronto a tuffarsi in un mondo di compromessi e d'illegalità; un protagonista sin troppo carico sul piano simbolico, visto che deve incarnare l'inestricabile mix d'ingenuità e determinazione, onestà e furfanteria che caratterizzerebbe il ceto ex proletario in bilico tra lavoro nero e imprenditoria fai-da-te. Si può dire subito che il film di Daniele Luchetti non passa inosservato, ha una bella grinta e, soprattutto nella prima parte, dispone bene i suoi personaggi sullo sfondo di una Roma nient'affatto glamour ma neanche miserabile, un'enorme distesa di dignitosi conglomerati dove la nuova periferia senza identità cerca di mascherarsi da appagato quartiere residenziale. Claudio (Germano), marito e padre felice, è il perno dello spaccato drammaturgico perché proprio a lui capita la disgrazia che fa crollare il castello di carte sociale scatenandolo in un'ansia di riscatto basata sui soldi e i beni da mettere a tutti i costi disposizione dei figlioletti. Più che di neo-neorealismo, si tratta di un taglio teso, sincopato, attento, incollato ai volti e ai gesti come per catturarne il senso profondo, per cogliere nella loro apparente casualità il leitmotiv di paura e solitudine urbane, un po' sulla linea del cinema indipendente newyorkese a cavallo del 1970 che ha il suo nume tutelare in John Cassavetes. A poco a poco, però, il film inizia a spegnersi, a ripetersi, a ritrovarsi addosso l'ingombro di una sgradevolezza che doveva restare a carico di Claudio, della sorella in cassa integrazione (Montorsi), del fratello scapolo (Raoul Bova) e dell'inquietante vicino di casa Ari (Zingaretti). La sceneggiatura del duo storico Rulli-Petraglia esagera nel suggerire una serie di sottolineature inutili, pedanti e a tratti persino grottesche (il ragazzo rumeno che fa la lezioncina all'italiano cinico) che non servono a causa della loro sbrigatività didascalica: in Italia impera il consumismo, il culto dell'apparenza dilaga, la classe operaia non è più quella di un tempo e, anziché leggere i giornali o impegnarsi in politica, preferisce i raid di fine settimana nei centri commerciali. Il finale consolatorio rischia di lasciare tutti gli spettatori scontenti: i furiosi perché non picchia duro come «Draquila», i normali perché la troppa carne a cuocere sembra ancora cruda e anche un po' bruciacchiata.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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