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DUE PARTITE
Commedia
di Enzo Monteleone
con Margherita Buy, Marina Massironi, Carolina Crescentini, Isabella Ferrari, Claudia Pandolfi
94 minuti - Italia 2009

Cristina Comencini, autrice e regista a teatro di «Due partite» e Enzo Monteleone che ha portato al cinema la piéce teatrale di successo. Il regista ha diretto per il grande schermo «El Alamein» e in tv «Il capo dei capi» Il successo a teatro - due anni di repliche in giro per l' Italia - ha fatto arrivare Due partite anche al cinema, affidato però non alla sua autrice e regista teatrale Cristina Comencini ma a Enzo Monteleone, già sceneggiatore (per Salvatores, Mazzacurati, Piccioni e D' Alatri, tra gli altri) e ora soprattutto regista (El Alamein al cinema, Il tunnel della libertà e Il capo dei capi alla tivù). Il film mantiene non solo la struttura drammaturgica del testo teatrale (pubblicato da Feltrinelli), ma ne segue anche piuttosto scrupolosamente il dialogo, concedendosi una sola, rilevante novità: lo sdoppiamento del cast. Pièce e film, infatti, raccontano l' incontro per la consueta partita di canasta settimanale di quattro amiche e, una trentina di anni dopo, il ritrovarsi dopo un fatto luttuoso, delle loro rispettive figlie. A teatro madri e figlie erano interpretate dalle medesime attrici: Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi e Valeria Milillo. Sullo schermo le madri sono affidate ancora alla Buy, alla Ferrari e alla Massironi, a cui si aggiunge Paola Cortellesi, mentre la Milillo passa nei ranghi delle figlie, accanto a Carolina Crescentini, Claudia Pandolfi e Alba Rohrwacher. Qualche irrilevante comparsata maschile appare solo nella scena di raccordo tra il passato e il presente, quella che si svolge in un cimitero. Ambientato, diversamente dalla messa in scena teatrale, nello stesso appartamento, che la scenografa Paola Comencini ha saputo vivificare con un lavoro ben più approfondito del semplice «arredamento d' epoca» (decisamente notevole il lavoro sui quadri alle pareti, davvero insolito per il cinema italiano), il film è tutto centrato sui dialoghi delle otto protagoniste, grazie ai quali la Comencini cerca di affrontare alcuni degli aspetti che girano intorno al tema dell' emancipazione femminile. È certamente la qualità migliore del film ma anche, in qualche modo, il suo tallone d' Achille. Borghesi decisamente agiate, ognuna con un carattere o una faccia specifica della identità femminile benestante pre-Boom - l' acida repressa (Buy), la remissiva cuorcontenta (Massironi), la fredda disillusa (Cortellesi), la romantica incinta (Ferrari) - le quattro madri funzionano più sulla carta (e a teatro) che sullo schermo. Il difetto maggiore è una certa ostentata programmaticità che finisce per trasformarle da personaggi in tipi (fin troppo) caratteristici. Il testo della Comencini sa spesso cogliere nel segno, quello di una insoddisfazione generazionale e caratteriale non scontata, dove si mescolano fragilità psicologiche e condizionamenti sociali, intuizioni proto-femministe e (probabilmente) ricordi autobiografici, ma una certa «meccanicità» drammaturgica funzionale al palcoscenico finisce per stonare sullo schermo. Soprattutto quando la battuta o la gag (come le quasi doglie della Ferrari) arrivano sempre esattamente quando te lo aspetti, secondo una regola che a teatro può far scoppiare l' applauso della platea ma al cinema sa troppo di prevedibile. Per questo convince di più l' incontro tra le figlie, che Monteleone filma con maggior libertà e invenzione, abbandonando quelle carrellate circolari della prima parte che invece di movimentare la scena finiscono per dar l' impressione di «imprigionare» ancora di più le madri nei loro ruoli. Il tema della pièce ruota intorno all' eterna insoddisfazione delle donne per il loro ruolo, prigioniere di schemi borghesi da cui non vogliono (oltre che non possono) ribellarsi negli anni Sessanta e che ritrovano poco o niente cambiati anche qualche decennio dopo, quando l' indipendenza economica o la realizzazione personale non sembrano aver fatto raggiungere alle figlie quegli ideali di felicità che le madri sognavano. L' idea della messa in scena è quella di lasciare gli uomini fuori dal quadro ma di «interrogarli» silenziosamente per i loro comportamenti, ieri senza colpevolizzarli più di tanto (anche le madri malmaritate finiscono per accettare quel ruolo di cui si sentono in buona parte co-responsabili) e oggi chiamandoli in causa direttamente, chiedendo loro ragione delle proprie azioni, ma sempre senza nascondere le proprie responsabilità. Peccato che alla fine la sensazione sia più quella dell' esercizio d' intelligenza che d' introspezione, dove la prova d' attrice vince su quella di regia e l' atteggiamento che si chiede al pubblico sia quello di ammirare il funzionamento di un meccanismo ben oliato piuttosto che quello di immedesimarsi o di appassionarsi per qualcuna delle otto vite raccontate.
Paolo Mereghetti (Corriere della Sera)
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