Drammatico di Olivier Dahan con Marion Cotillard, Clotilde Courau, Gérard Depardieu, Sylvie Testud 140 minuti - Francia, Gran Bretagna, Repubblica Ceca 2007
«Quand il me prend dans ses bras / Qu' il me parle tout bas / Je vois la vie en rose...». Nel dopoguerra la cantavamo tutti, in francese, in italiano e non di rado parodiandola. Ricordo che nei bar milanesi di Brera, dopo le elezioni del ' 48 disastrose per i socialcomunisti, circolava una variante: «Sono andati a quel paese / il Fronte popolar / De Vita e Titta Rosa...» con riferimento ai due noti esponenti dell' intellettualità sinistrorsa. Questo per dire come all' epoca la voce di Edith Piaf, che oggi ci incanta per l' ennesima volta nel film La vie en rose, era entrata nella quotidianità: accompagnatrice, consolatrice, suggeritrice. Nel suo affascinante collage biografico il regista Olivier Dahan, privilegiando i tormenti e le estasi della «Mome» (la chiamavano così, la marmocchia), trascura un po' il fatto che le parole di La vie en rose (come quelle di altre canzoni) Edith se le scrisse da sola: era dunque una poetessa, sia pure di formazione ruspante (vedi la raccolta «L' Hymne à l' amour» della Livre de Poche). E forse bisognava dare qualche risalto a quella che Marc Robine nel suo libretto Il était une fois la chanson française (Fayard) chiama «la nebulosa Piaf», cioè il fertile contesto in cui la diva si impose come centro motore di straordinarie energie creative, non solo artisti come Gilbert Bécaud, Yves Montand, Charles Aznavour, Francis Lemarque, ma anche parolieri, compositori, produttori musicali. In cambio il film, con accattivante grazia, inserisce la parabola di Edith nella tradizione della grande letteratura. Come non ricordare Victor Hugo nelle scene miserabili di strada della sua infanzia? E Maupassant, in quella specie di «Maison Tellier» normanna dove la bambina viene mandata a crescere fra le brave pensionanti di un casino? E Zola, in un' adolescenza contrassegnata dalla brutalità e dall' assenzio? C' è perfino un tocco di Mauriac nel pellegrinaggio alla tomba di santa Teresa di Lisieux, di Simenon nell' assassinio misterioso del primo scopritore (tanto di cappello a Gérard Depardieu, attore grande anche quando la parte è piccola). Ovviamente il pensiero va alla tradizione cinematografica, al Jean Renoir di La grande illusione: di cui si ritrova in altra chiave l' emozione che suscita «La Marsigliese», qui intonata dalla bimba per strappare l' obolo allo scarso pubblico del papà saltimbanco. La parabola umana è rievocata in un artistico disordine che salva il film dalla banalità della biografia con il personaggio che passa nel tempo. Marion Cotillard entra in scena con lo svenimento sul palco newyorkese del ' 59 per poi riapparire giovanissima in corsa su per le antiche scale di Montmartre, decrepita e tremolante nell' ultimo esilio di Grasse nel ' 63, palpitante d' amore fra le braccia dello sventurato pugile Marcel Cerdan e via mescolando epoche, situazioni e volti in una rapsodia atemporale suggestiva benché confusa. Al di là di ogni elogio l' eroica prova di Marion, il cui strepitoso risultato non si deve soltanto alle sei ore giornaliere di manipolazioni facciali perché il segreto della recitazione sta nell' occhio, che non si trucca, e nell' arte di muovere le mani. Sicché l' interprete esce vincente dalla sfida di accompagnare il playback con la mimica e lo sguardo; e a questo proposito va segnalato il paradossale felicissimo colpo di regia per cui il primo trionfo della Piaf è raccontato togliendo la voce della cantante e contrappuntandone le espressioni con quelle del pubblico ormai conquistato una volta per tutte. Tra altri difetti, che non mancano, La vie en rose ha quello del congedo lento. Il finale si trascina a lungo introducendo fra altri insistiti tocchi sentimentali il particolare della figlioletta morta precocemente che a quel punto è superfluo. Era meglio arrivare prima a «Non, je ne regrette rien», una canzone che esprime il senso di una vita.
Tullio Kezich (Corriere della Sera)
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